Controstorie

Il fenomeno "Ouaga Girls" contagia le donne africane

In una società maschilista sono riuscite a studiare e ad aprire un'autofficina. Diventando un simbolo

Il fenomeno "Ouaga Girls" contagia le donne africane

Ci sarebbero parecchi modi per raccontare la vita nelle strade ostaggio dei gas di scarico delle moto e delle auto a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Quello forse più originale inizia da otto corpi snelli che indossano tute blu, in contrasto con il cielo di un grigio metallizzato dall'inquinamento. I corpi snelli di Ouagadougou appartengono alle «Ouaga Girls», simbolo di una società africana in movimento e creativo. Honorine, Samatou, Marthe, Chantal, Laetitia, Mariette, Estelle e Biovamba, sono l'esempio vivente di una visione trasversale dell'esistenza di alcune giovani che hanno deciso di affrontare l'inevitabile e il difficile passaggio dall'adolescenza alla vita adulta con responsabilità.

Senza indossare l'etichetta delle perdenti in viaggio verso l'ignoto di uno pseudo-eldorado europeo. Le otto ragazze si sono messe in gioco, hanno aperto nell'autunno dello scorso anno un'officina di riparazioni auto. Sono, per ora, le uniche in una città di 2 milioni e mezzo di abitanti, e gli affari vanno a gonfie vele: forse perché sono donne e rappresentano l'unicità, o forse, più semplicemente, perché con gli attrezzi da lavoro ci sanno fare. Il Burkina Faso, letteralmente «la terra degli uomini onesti», come la ribattezzò il capitano Thomas Sankara, vive una nuova fase a intermittenza dopo la caduta del regime di Blasie Campoaré, padre-padrone del Paese per 27 anni. Il rinnovato contesto sociale e politico viene rivelato attraverso una cartellonistica senza precedenti (dai telefoni, ai prodotti per sbiancare la pelle, fino ai contraccettivi) e al movimento per le strade della gente perennemente incollata ai telefonini. Ouagadougou è una città in espansione, anche se le abitazioni benestanti si mescolano con i quartieri precari dove le casette hanno una o due stanze di fango essiccato senza luce né acqua. Si percepisce una brezza di rinnovamento, ma le «Ouaga Girls» non hanno colto gli effetti di una rivoluzione promessa dall'attuale leader Christian Kaboré, «e non siamo neppure disposte a vivere in una sorta d rassegnazione silenziosa e passiva - ammette Honorine - lamentarsi e ripetere che non cambierà nulla suona come una condanna. Una volta eravamo l'Alto Volta, ma per noi non significava nulla, era sinonimo di colonizzazione e poco altro».

La maggior parte delle donne è esclusa dall'istruzione di base, a causa delle tradizioni culturali. Con poca istruzione, scarse competenze professionali e poco o nessun accesso al mercato del lavoro, le ragazze del Burkina Faso corrono il grande rischio di diventare vittime del traffico di esseri umani, problema che affligge in maniera devastante la nazione. L'esistenza di questo problema è testimoniata dalla differenza di reddito tra i due sessi. Secondo la Banca Mondiale, infatti, il reddito medio di una donna, per una settimana di lavoro, è inferiore di un quarto a quello di un uomo. Bisognava in qualche modo risalire la corrente, ed è per questo motivo che due anni fa Honorine e le sue amiche si sono iscritte a una scuola di formazione professionale che fa parte di un progetto di sviluppo sociale finanziato dall'African Economic Community. «Sono appassionata di Formula Uno - racconta Laetitia - anche da queste parti la Ferrari è una leggenda. Però non mi soffermavo sui piloti, in tv mi lasciavo rapire dalla sicurezza ostentata dai meccanici ai box, dall'abilità e dalla rapidità nel mettere a punto le macchine da corsa. Ho scelto una professione maschile, senza lasciarmi influenzare dalla disoccupazione giovanile dilagante». Il resto è una storia che si srotola tra cacciaviti, chiavi inglesi e motori arrugginiti da rimettere in sesto in un settore ampiamente riservato agli uomini. Una barriera di genere che non le ha scoraggiate. «Abbiamo puntato sull'unicità - rivela Samatou - ben sapendo che avremmo dovuto destreggiarci tra le cupe situazioni economiche di Ouagadougou. Per ora tutto sta andando bene, forse perché gli uomini non se la sentono di fare debiti in un'officina gestita da donne e pagano in contanti». Nelle parole di ciascuna «Ouaga Girl» si percepisce ottimismo e serenità, aspetto stridente di una nazione dove in larga misura i giovani trascorrono buona parte della giornata nei bar a bere birra d'importazione francese, lamentandosi delle difficoltà nel mettere assieme pranzo e cena. Queste ragazze invece rivelano le proprie ambizioni, paure, gioie e problemi, senza però piangersi addosso o rimanere con le mani in mano. Anzi, non mancano persino nuove idee e progetti ambiziosi, come confessa Marthe. «Ho ereditato questa passione da mio padre. Già da piccola mi davo da fare in officina. E adesso che lui non c'è più ho deciso di riutilizzare vecchi bidoni e rottami metallici della sua autorimessa per trasformarli in mobili moderni e da design. Li esporrò nella nostra officina, conto molto negli acquirenti stranieri».

La storia delle «Ouaga Girls» sta facendo rapidamente il giro del Burkina Faso, soprattutto dopo che la regista Theresa Traore Dahlberg ha deciso di raccontare la loro esperienza in un documentario che sarà in concorso alla 28esima edizione del Festival Panafricain du Cinéma di Ouagadougou, il più importante di tutto il continente nero. Il loro messaggio ha contagiato le giovani di Bobo-Dioulasso e Banfora, le due città più popolose del Paese dopo la capitale. Ma anche a Tamale, nel nord del Ghana, qualcosa si sta muovendo, generando persino una pianificazione più attenta e capillare delle scuole professionali.

In una terra di donne sospese tra povertà e riscatto, fra tradizioni che pesano come macigni e nuovi diritti da conquistare, è arrivata una piccola ma significativa svolta.

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