Finanza sostenibile

Come intervenire per salvare la finanza climatica

Dibattito acceso alla Cop26 sul tema della finanza climatica. Una questione complessa per la quale servirebbero maggiori fondi dai Paesi ricchi

Come intervenire per salvare la finanza climatica

Quello della finanza climatica, o finanza sostenibile, è stato uno dei temi più intricati e divisivi su cui si è discusso nel corso della Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta a fine 2021.

Del resto quando gli attori sul palco sono tanti e con esigenze e priorità diverse è difficile trovare un accordo che soddisfi tutte le parti. A scaldare gli animi è la questione del denaro che le economie più avanzate concedono ai Paesi più vulnerabili e in via di sviluppo per interventi di mitigazione e adattamento.

E così è emersa una frattura tra nazioni. Frattura che ha creato una sorta di divisione in due opposte fazioni: da un lato ci sono i Paesi sviluppati e dall’altro quelli in via di sviluppo e poveri. I primi stanno faticando a recuperare 100 miliardi di dollari l’anno che avevano promesso nell’ormai lontano 2009. Cosa, tra l’atro emersa nell'accordo finale chiamato "Glasgow Climate Pact". Nel documento si è rilevato con "profondo rammarico" che i Paesi ricchi hanno mancato l'obiettivo fissato per il 2020 di dare 100 miliardi di dollari all'anno in sostegno a quelli poveri.

Questi ultimi non intendono assumersi il pesante peso economico e sociale della crisi climatica generata in gran parte dal mondo industrializzato. Esiste infatti un paradosso. Il Continente nero sta subendo gli effetti dei cambiamenti climatici in corso. E questo è dovuto in parte anche alla sua bassa capacità di adattamento, dovuta alle limitazioni finanziarie e tecnologiche. Ma non solo. Perché altro elemento che crea ostacoli è l’eccessiva dipendenza dall’agricoltura pluviale.

Vi è un dato che fa molto riflettere. In occasione della pubblicazione del nuovo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), Oxfam ha fatto sapere che dalla chiusura della Cop26 e fino a fine febbraio (circa 100 giorni) l’1% più ricco della popolazione mondiale è stato responsabile dell’emissione in atmosfera di circa 1,7 miliardi di tonnellate di CO2. Una quantità ben più alta di quanto l’intero Continente africano, abitato da 1,4 miliardi di persone, ne emetta in un anno.

I Paesi poveri, inoltre, avevano chiesto di inserire nel testo finale di Cop26 la creazione di un sistema di monitoraggio per far sì che gli impegni presi da parte dei Paesi donatori divenissero meno vaghi e più concreti.

Come se non bastasse l’Africa, come ha raccontato il sito rinnovabili.it, aveva deciso di puntare ancora più in alto, facendo una richiesta ben precisa ma di difficile attuazione: dal 2030 i fondi sarebbero dovuti salire a 1.300 miliardi ogni anno. Questo almeno era stato spiegato all’agenzia Reuters da Zaheer Fakir, uno dei negoziatori per l’African Group of Negotiators on Climate Change, ben prima dell’inizio dei lavori della Cop26.

In pratica il denaro che già oggi i Paesi donatori fanno fatica a racimolare sarebbe solo qualche briciola rispetto a quello che dovrà essere versato nel prossimo futuro. Una somma bella corposa che sarebbe stata fissata dai ministri dell’Ambiente del Continente africano ancor prima dell’inizio di COP26.

Ma sarebbe davvero possibile concedere tutto questo denaro? Non si sa. Basti pensare che la somma è praticamente pari all’intero Pil annuale di Stati come la Spagna o l’Australia. Quel che è certo è che tale richiesta fa capire quanto sia grande la distanza tra economie avanzate e quelle del resto del mondo.

In questo quadro l’Italia ha provato a fare la sua parte. Ma al momento il nostro Paese contribuisce con molto meno del dovuto, se si guardano le emissioni storiche: il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha garantito che verrà raddoppiato l’importo fino a 1 miliardo.

Ma i soldi da soli non bastano. Perché è fondamentale impiegare il denaro in opere concrete per contrastare la crisi climatica. Cosa che secondo Fakir oggi non accade in quanto i Paesi donatori scelgono con ampia discrezionalità che progetti finanziare. Di solito, ha evidenziato ancora il negoziatore, si tratta di piani per i quali servono meno fondi o che garantiscono un certo ritorno d’immagine.

In questo modo, però, gli obiettivi non sono sempre centrati.

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