Controcultura

La formula perfetta per conciliare Nulla e Tutto

La formula perfetta per conciliare Nulla e Tutto

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La formula perfetta per conciliare Nulla e Tutto

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Non è una cartolina recanatese. Eppure. Vogliano ingabbiare Giacomo Leopardi nello stereotipo del gobbo che gorgheggia alla luna e che oltre la siepe scorge l'infinito, la beatitudine dei sensi, la sensibile felicità. Leopardi, piuttosto - per fortuna - non è un poeta pacificato, è sfrenato, furibondo, contraddittorio. Basta guardare il manoscritto de L'Infinito, che ormai stampano pure sulle magliette, e quel gioco di patimenti: «Così tra questa/ immensità s'annega il pensier mio». Il poeta cancella, estremizza, al posto di «immensità» scrive «infinità», poi torna sui suoi passi, sceglie l'immenso rispetto all'infinito.

Leopardi coltiva gli estremismi, è il poeta del sovrumano, dell'interminato, del profondissimo, dell'immenso, del naufragio. Proprio lui, con quella ossessione implacabile, inappagata, fa deflagrare la poesia occidentale, è il nonno di Arthur Rimbaud, che nel 1871, sessant'anni dopo, a Paul Demeny scrive che il poeta deve «farsi veggente... mediante una lunga, immensa, sragionata sregolatezza di tutti i sensi», deve «giungere all'ignoto» e rischiare tutto «nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili». Cambia la prospettiva, analogo è il balzo: Rimbaud è il poeta che impone «la conoscenza intera di se stesso», il salto nelle regioni stralunate e terribili dell'anima, Leopardi, invece, invoca il salto - che è sempre mortale - verso tutto ciò che è fuori di noi, verso l'altro, l'alto, l'altrove. L'Infinito, appunto, non è una cartolina a imbonire i liceali e a bonificare il turismo marchigiano - è una sfida. Nello stesso anno in cui compone l'idillio, con prepotenza iliadica più che idilliaca, Leopardi, sullo Zibaldone, appunta: «Io ero spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla». Altro che siepe, dolcezza, quiete, qui il mondo, la natura, le relazioni umane sono viste per ciò che sono, un fiume di pece, un gorgo insignificante, l'attrazione del niente, che tramortisce. Ma questo nulla, descritto con geometrica lucidità da Leopardi - «tutto il reale essendo un nulla, non c'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni» - non è una resa, è l'esperienza primaria, quella che fonda tutte le altre, l'evidenza, ineludibile, inderogabile.

La straordinaria mistica marchigiana Veronica Giuliani, un secolo prima, ha la stessa percezione di Leopardi: l'inconsistenza di tutto («Nel profondo dell'annientamento mi vedo ponere»), l'incapacità dei verbi, lo sbalestramento di tutti i linguaggi, l'insufficienza della comprensione logica («Non dico altro, perché tanto non dico niente»; «Più si cape meno si cape»). D'altronde, Leopardi disperde la disperazione in perfezione formale, è il poeta della rivolta, della rivalsa, che con una mano tratteggia l'idillio e con l'altra tenta la traduzione del libro biblico di Giobbe («Uom fu che 'l mal fuggia che Dio temea...»). L'Infinito è una mappa verso la dissipazione e il rischio supremo: da quel «colle solitario» non si contempla nulla, bisogna saltare nel nulla. Saltare oltre il colle, oltre la siepe, sfracellarsi sul muso dell'infinito.

Ecco, la poesia.

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