Cultura e Spettacoli

GIAN ARTURO FERRARI: "Leggere? E' noioso ma straordinario"

Parla l’uomo che controlla il 40 per cento del mercato editoriale italiano

Gian Arturo Ferrari è l’uomo più potente dell’editoria italiana e questa posizione gli piace moltissimo. Nei corridoi felpati della Mondadori lo chiamano Il Professore. Letterato e manager, passionale e cinico, colto e smaliziato, dall’alto del suo scranno di direttore divisione libri della Mondadori, dal quale controlla il quaranta per cento del mercato librario italiano (Mondadori, Einaudi, Sperling&Kupfer, Frassinelli, Electa, Piemme), fa il cattivo e non ha paura a smontare uno dopo l’altro i cliché del culturalmente corretto. Ferrari da buon professore dà bacchettate sulle mani a tutti: librai, giornalisti, autori, intellettuali snob.
Dicono che la Mondadori non fa cultura ma pensa solo a fare soldi. È vero?
«Sarebbe un’accusa questa? È la tipica forma mentis italiana, dove la frequentazione dei libri è un fenomeno élitario legato a ceto (appartenenza) e censo (soldi). Tutto ciò che non corrobora l’élite nella sua collocazione viene considerato commerciale».
Allora è vero che non fate cultura?
«La letteratura è nelle intenzioni, si sa dopo chi ha fatto cultura. C’è una regolina semplicissima per distinguere un editore commerciale da uno “non commerciale”: il secondo non pubblica mai un libro con l’esclusivo scopo di fare soldi, ma anche nella presunzione che abbia un pubblico sulla base del suo marchio».
Non sembra poi così tremendo.
«In sostanza pensa che il suo marchio sia più forte del pubblico. Il migliore uomo di marketing nella storia dell’editoria italiana è stato Giulio Einaudi, perché è riuscito a conferire ai libri che faceva un qualcosa in più. Anche Adelphi, che infatti è nata da una costola einaudiana, riproduce questo meccanismo. In questi casi il marchio è più forte del pubblico».
Infatti Einaudi passa per essere un editore di cultura, la Mondadori no.
«In Italia il migliore marketing editoriale lo hanno fatto le case editrici che hanno adottato un modello dall’alto in basso. Einaudi la prende dall’alto. La Mondadori dal basso. Dice ai suoi lettori: io sono come te. Non gli dice: io sono più bello di te. Le faccio l’esempio: nel 1936 Mondadori pubblicò un libro di tale Francis Scott Fitzgerald che uscì con il titolo Gatsby il magnifico in una collana di libri per le serve, “I romanzi della palma”. Era letteratura o no? Sa qual è il problema italiano?».
Quale dei tanti?
«In Italia la cultura ritiene di essere superiore. E questo ha un’origine storica perché la lingua italiana nasce come lingua scritta e non parlata. Quindi è la lingua dei colti per i colti che guardano con grande disprezzo a tutto ciò che non può essere rinchiuso nella cittadella fortificata che loro accuratamente difendono».
Questo non vuol dire, però che un libro non sia buono perché non vende. Prendiamo il caso di Antonio Moresco, il nuovo scrittore-guru osannato da certa critica letteraria...
«Chi è questo Moresco?».
Però non è detto che Dan Brown sia un buon libro solo perché vende.
«Ecco, le pagine culturali dei giornali sono un efficacissimo esempio di questa cosa: si rivolgono al gruppo dei lettori di libri “buoni”, che ognuno, a seconda della tendenza del giornale, identifica in buono A, buono B e buono C. Ma il quotidiano non si propone mai di dare informazioni e di avvicinare alla lettura gente che tradizionalmente non li legge».
Guardi che i giornali non sono mica delle aule scolastiche. Spesso segnalano libri di piccoli editori perché pubblicano cose più belle o interessanti.
«I giornalisti culturali hanno il problema di tutti, cioè di differenziarsi dal resto dei loro simili. E cercano di farlo come possono. Ed è ovvio che le cose che piacciono a tutti non possono piacere all’élite, di cui i giornalisti sono parte».
Lei crede che i giornalisti siano un’élite?
«Loro lo credono. È attitudine tipica delle persone colte che leggono e comprano molti libri. La critica cinematografica è fatta molto meglio di quella letteraria: ci vorrebbe un Mereghetti anche per i libri».
Insomma, non le piacciono proprio i giornalisti culturali?
«I giornalisti si sentono comunque un’élite e suppongono di saper fare il nostro mestiere meglio di noi. Perché chi legge libri ne trova di belli e di brutti e pensa che fare l’editore sia fare libri belli e non fare quelli brutti. Soffriamo del complesso di Trapattoni: come per la nazionale, ognuno ha la sua formazione e crede che sia la migliore. È l’atteggiamento opposto a quello che hanno verso il dentista, tecnico sublime e supremo al quale si affidano ciecamente. Noi editori siamo l’opposto del dentista».
Vi accusano (voi Mondadori ma anche Feltrinelli) di uccidere i librai e strangolare il mercato.
«Sono lamentele di categoria. I librai pensano che la libreria debba essere l’unico canale di vendita. Purtroppo non è così. Noi usiamo i canali dove si vende meglio».
Però così fate morire le piccole librerie e trovare un libro di catalogo è sempre più difficile.
«È il mercato che va in questa direzione. Se ci confrontiamo con l’estero siamo ancora molto indietro. Ad esempio in Francia la vendita dei libri nelle cosiddette “grandi superfici culturali” (Fnac per intendersi), è molto più diffusa che da noi».
Dicono che siete cattivi, perché fagocitate i piccoli editori.
«Non sono cattivi i grandi che comprano, ma sono i piccoli e medi che vendono. Valentino Bompiani ha venduto perché andare avanti significava perdere quote di mercato e quindi valore della sua azienda. Semplice».
Da sinistra vi criticano perché pubblicate i libri degli amici di Berlusconi, da destra vi criticano perché la Mondadori è un covo di gente di sinistra, che boicotta la cultura di destra e fa i libri di Che Guevara. Da che parte state?
«L’editoria è un’autonoma provincia dello spirito. Non è un’appendice della politica né dell’ideologia. L’editoria periodica ha un direttore responsabile che segue una certa linea politica e ne risponde all’editore. L’editoria libraria risponde agli autori. Il direttore editoriale non detta la linea politica».
Però le case editrici hanno anch’esse una loro politica.
«I vari marchi controllati da Mondadori hanno un proprio profilo e una propria identità che io tutelo in tutti i modi. Einaudi è e rimane di sinistra. Ciò non piace alla destra? Pace. Mondadori invece, per una lunga tradizione che risale ad Arnoldo in persona, non si è mai data una collocazione ideologica. Si lamentano perché pubblichiamo Tremonti e anche D’Alema? Sono voci diverse e ci piace così».
Tra Dan Brown e Tremonti?
«Mi ha dato più soddisfazione pubblicare Tremonti, perché è un successo inatteso».
Una ricerca dice che nel mondo si pubblica un libro ogni trenta secondi. Non sono troppi?
«Assolutamente no. Il numero di libri pubblicati è l’indice più sicuro di vitalità culturale di un Paese. In situazioni di scarsa libertà il numero di libri cala vertiginosamente. Perché sono così tanti? Perché costa meno pubblicarli e vedere come vanno che fare una ricerca di mercato prima. E poi la sa una cosa?».
Cosa?
«I troppi libri sono sempre quelli degli altri. Gli autori si lamentano: ma come, avete pubblicato anche il tizio... ».
La sera meglio un libro o un programma tv?
«Non credo che i lettori di libri non guardino la tv. L’idea di un popolo diviso in bruti che passano il tempo davanti al piccolo schermo contro un’élite che legge i libri è tipica di quegli estremisti intellettuali di cui ho già detto cosa penso. Però diciamo la verità: la lettura è un’attività asociale, faticosa e anche noiosa.

Ma rimane la più straordinaria di tutte».

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