Cultura e Spettacoli

Giuseppe Tucci Un Himalaya di conoscenze

Lorenzo Scandroglio

Chi non sa che quello ritratto in alcune foto seppiate degli anni Dieci e Venti del Novecento è Giuseppe Tucci da giovane, per un attimo potrebbe quasi pensare che si tratti di una giovane donna in abiti da viandante, questi sì maschili, con calzettoni di lana grossa, scarponi di cuoio, pantaloni arrotolati sotto il ginocchio, alla zuava, giacca pesante e bastone. L’impressione si deve a quel ciuffo di capelli neri, che si alzano di lato e ricadono sulla fronte, su un viso dai tratti delicati. L’immagine di sé che Tucci ha consegnato alla storia ce lo mostra però due-tre decenni dopo, impegnato nel guado di fiumi, solo o al fianco di portatori tibetani, guardiani di monasteri, arcieri dai tratti inconfondibilmente asiatici, con il volto che tutti, tibetologi, etnologi, esploratori, orientalisti, hanno imparato a riconoscere: le sopracciglia leggermente cadenti e gli occhi socchiusi di chi è abituato a protendere lo sguardo verso l’orizzonte.
Forse meno noto al grande pubblico del suo amico-nemico Fosco Maraini (col quale ruppe i rapporti, complice un carattere e un’indole non prive di asperità, per aver messo gli occhi sulla stessa principessa tibetana che piaceva a lui), non di meno Tucci vanta una produzione sterminata di scritti, anche in ambito pubblicistico, con articoli per riviste geografiche specializzate che, in parte, vengono ora raccolti nel libro uscito in questi giorni Il paese delle donne dai molti mariti (Neri Pozza, pagg. 287, euro 17,50), titolo di un articolo pubblicato ne La Lettura del 1936 che, in questo caso, intitola l’intero volume. Corredato da un apparato fotografico nel quale si segnala una foto del grande Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutto dai talebani, che inchioda il lettore non meno della parte testuale, il libro è una sorta di spaccato sociale, culturale, religioso, umano, delle popolazioni che vivono nell’Himalaya soprattutto tibetano. Nella sezione che lo intitola, che indubbiamente evidenzia l’abisso culturale che separa Occidente e Oriente (che poi è il bello delle differenze culturali e, conseguentemente, dell’autentico viaggiare), Tucci descrive la pratica della poliandria nelle aree rurali del Tibet occidentale, pratica che per altro è ancora in auge: «Di mariti quasi tutte ne hanno più d’uno, perché nel Tibet vige ancora il costume della poliandria. Una ragazza sposa non solo il suo fidanzato ma insieme con lui tutti quanti i suoi fratelli e, come se ciò non bastasse, può anche prendersi una specie di assistente, un marito più o meno legale che, essendo scelto per capriccio o per più valide ragioni, finisce presto per diventare la persona più autorevole di questo strano regime familiare. I figli, in mezzo a tanti padri, non sanno distinguerli che in rapporto all’età: e così essi sono gli unici al mondo ad avere un padre seniore e dei padri iuniori. Ma con tutto ciò una grande armonia regna in queste famiglie che non conoscono il tarlo della gelosia o il furore delle passioni. I mariti hanno il loro turno e si avvicendano con rassegnata sottomissione ai voleri della loro signora che di fatto gode di una grande autorità, accresciuta da quello spiccatissimo senso di economia e da quella naturale tendenza a dirigere, amministrare, comandare che è vivissima nelle donne tibetane».
Il passo offre lo spunto per una breve divagazione riguardante la tentazione, ancora presente in Occidente, di interpretare un simile spaccato sociale in senso quasi matriarcale. Ora, premesso che quella del matriarcato è comunque soltanto un’ipotesi giacché non ci sono prove di una sua esistenza nemmeno passata, la poliandria - come ha fatto più volte notare l’antropologa e tibetologa Hildegard Dienberger, docente alla University of Cambridge e profonda conoscitrice della società tibetana contemporanea - non ha niente a che vedere con essa.
Gli spunti di interesse offerti dal libro di Tucci non si esauriscono naturalmente nel capitolo dedicato alle donne dai molti mariti, anzi. Più oltre, sempre riguardo al Tibet, si legge: «in mezzo a così sconsolato paese, in contrade ove vivere è spesso sinonimo di patire, i tibetani sono fra i più sereni popoli della terra. \ anche gli asceti raminghi, che vanno compiendo certi loro riti notturni paurosi, in mezzo ai cimiteri, per sprofondarsi nella contemplazione della irriducibile insostanzialità di tutte quante le cose e sono coperti di ossa umane e bevono in scatole craniche e suonano trombe fatte con femori, hanno un aspetto così lieto, così beatifico, sono così pronti al sorriso, che incontrarli, nonostante i loro macabri utensili, è quasi sempre un piacere».
È evidente in tutto questo che la conoscenza diretta, e soprattutto la frequentazione, del poeta e filosofo indiano Rabindranath Tagore (Nobel della letteratura nel 1913) e dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade che, come lui, fu spesso in India, non sono semplicemente due dati di interesse biografico, ma ci dicono qualcosa di più dello stile e della sostanza dell’opera di Giuseppe Tucci. Per carità, non si fraintenda: la sua prosa non è affatto lirica, ma la definizione del Tibet come «Altare della terra», o certi articoli che costellano il libro, quali «L’abisso delle Madri» e «Acque cosmiche», rivelano fin da subito in modo inequivocabile che per l’orientalista maceratese la sua fu - come opportunamente evidenziava la mostra tenutasi nel 2004 a Macerata nel centesimo anniversario della nascita - innanzitutto un’esplorazione dell’anima.
Forse non c’è esplorazione vera, viaggio vero, che non siano esplorazioni e viaggi dell’anima e nell’anima, nell’anima mundi e in tutte le sue molteplici manifestazioni: gli spiriti del luogo. Ecco, Tucci fu attratto dalla sfera metafisica dei luoghi così come tanti esploratori, soprattutto anglosassoni, lo furono da quella fisica, fatta salva l’intrinseca magia e ieraticità delle montagne himalayane che fecero dire allo stesso Marco Polo di non essere riuscito a rendere che una minima parte della magie delle terre che aveva attraversato.


Giuseppe Tucci fu un autodidatta straordinariamente erudito, capace di parlare i principali idiomi asiatici e, soprattutto, di non ridurre la sua erudizione a mera conoscenza: se la conoscenza si fonda infatti su una mole di nozioni accumulate orizzontalmente, fu la sapienza, che le attraversa con la verticalità del pensiero, dell’intuizione, dell’analogia e del simbolo, a caratterizzare Tucci.

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