Controstorie

Guerra ambientalista contro gli eschimesi che sopravvivono solo grazie alla caccia

L'uccisione di una balena, accolta come un evento dal popolo Yupik, ha scatenato l'ira degli ecologisti. Minacce di morte e campagne persecutorie contro i nativi

Marzio G. Mian

da Anchorage

La montagna in distanza si chiama Sevuokuk e segna l'estremità nord-occidentale dell'isola di San Lorenzo nel Mare di Bering. Oltre la parete di basalto striata di neve s'estende il ghiaccio marino, in acque già russe e dov'è già domani, cioè oltre la linea del cambio data. Il pack è intriso di sangue, la solita spiaggia che in primavera gli eschimesi Yup'ik trasformano in macello, qui e là mucchi di carne e grasso e pelli di tricheco, le zanne ammucchiate come esotica legna da ardere. Senti l'odore del sangue, il turbamento di un bianco occidentale che intuisce ma non capisce: che cos'è un animale, che cos'è la morte, perché non vanno al supermercato?

Loro sono euforici, il sangue sulla neve è il segno della vita che continua. Gettano nell'acqua pezzetti di carne con mormorii di benedizione. Non è crudeltà, ma sopravvivenza, dicono, accumulo dell'unico cibo che concepiscono e che il loro corpo possa accettare, quello che si caccia, trichechi, orsi, foche. E la balena. Come quella cacciata proprio qui, qualche settimana fa da Chris Agragiiq Apassingok, 16 anni. La seconda balena della stagione a Gambell, il villaggio di seicento anime che è Alaska ma guarda la penisola di Chukchi, Siberia. Era una femmina bowhead di 200 anni, lunga 18 metri, 145 tonnellate di carne e grasso. Chris era sulla banchisa con qualche amico, due ragazzine hanno avvistato la balena nel viale d'acqua aperta nel ghiaccio giovane. Sono partiti con una lancia in quattro e, dopo quasi due ore, Chris l'ha colpita con l'arpione a granata. KNOM Radio Mission ha diffuso la notizia nelle case esultando come i telecronisti del Maracanà; tutti in processione a rendere omaggio alla madre del ragazzino. Il quale aveva postato le foto su Facebook, scatenando il tifo della comunità eschimesi. «Onore a questo giovane cacciatore che nutre la sua comunità», ha scritto un capitano-baleniere di Nome. Uno sciamano di Barrow ha annunciato un pellegrinaggio a San Lorenzo.

Ma nel giro di qualche ora la notizia ha acceso la reazione del mondo animalista americano. Ira, minacce di morte. Paul Watson, uno dei fondatori di GreenPeace e poi leader di Sea Shepherd, controverso gruppo d'azione animalista che spesso sconfina nella violenza, ha accusato il ragazzino d'essere un assassino e ha invitato alla mobilitazione contro la barbarie degli eschimesi.

E si è aperto un caso che mette a nudo molte ipocrisie del nostro tempo: l'Occidente promuove le diversità e la conservazione delle culture indigene, ma la caccia, che è ancora perno dell'esistenza delle popolazioni artiche, per lo stesso Occidente è un crimine, soprattutto se a morire sono animali icona come la foca e soprattutto la balena: creatura sacra nelle metropoli, ma fonte di sussistenza per le comunità del Grande Nord. Contraddittori anche gli eschimesi, che accusano i bianchi d'imporre loro una cultura corretta e globalizzata dopo averli depredati e umiliati per secoli: eppure questi indigeni non si sottraggono alle sirene della modernità capitalista e attingono alle royalties del petrolio e delle miniere per comperare nuovi mezzi supertecnologici e cacciare così in modo sempre più efficiente.

Di fronte al linciaggio social, la madre di Chris, Susan Aakapak Apassingok, ha avviato una raccolta fondi tra le comunità artiche per denunciare Watson e company: in pochi giorni la cifra ha raggiunto i 30mila dollari. «Non dobbiamo più nasconderci, risponderemo a questi bianchi razzisti, li porteremo in tribunale», dice Nasugraq Rainey Hoipson, avvocato eschimese a Nome: «Ci hanno tolto tutto, ora con il crollo del prezzo del petrolio anche i pochi negozi non sono più riforniti, il poco cibo a disposizione ha prezzi inaccessibili, rischiamo la fame. Noi non uccidiamo un solo animale oltre il necessario per la scorta di sopravvivenza».

Il caso della balena di San Lorenzo, nei media di Anchorage, del Nord Canada e di Nuuk in Groenlandia, è arrivato nel momento in cui si dibatte sulla corsa di molte potenze alla conquista delle ricchezze artiche ora sempre più accessibili a causa del cambiamento climatico. Proprio nella regione dello stretto di Bering, con l'apertura delle nuove vie d'acqua polari, quest'anno si prevede un aumento del traffico marittimo del 70%. È la cosiddetta Pole Rush, che i nativi e il fragile ambiente artico - potrebbero pagare a caro prezzo. «La rapina continua», dice Charles Wohlforth, commentatore (bianco) dell'Alaska Dispatch News, «i ricchi occidentali idealizzano certi animali e li mettono davanti al bisogno di questi uomini e alla loro antica cultura, secondo cui l'uomo è connesso all'universo e la sua vita dipende da come usa le risorse. Qui uomini e animali sono parte dello stesso spirito». Charles ricorda che in cent'anni, tra il 1769 e il 1868, la sola Compagnia della Baia di Hudson esportò in Europa le pelli di 300mila orsi polari, 500mila lupi, sei milioni di castori; i balenieri inglesi e americani uccisero due milioni di cetacei e quattro milioni di trichechi, «unicamente per le loro zanne. Nei rapporti di Scotty Allen si legge che i nativi ammalati a causa della convivenza con i bianchi venivano dati in pasto ai cani da slitta». Charles ammette che il denaro arrivato dagli accordi con le compagnie petrolifere e la tecnologia hanno cambiato molte cose nelle comunità. «Le deroghe dei governi alla caccia di sussistenza per gli eschimesi è basata su dati scientifici che escludono il pericolo d'estinzione degli animali cacciati. Ma è un fatto che la globalizzazione non fa prigionieri, o sei dentro o sei fuori la modernità».

Questa piccola storia di San Lorenzo ha scatenato, paradossalmente, sui moderni social la rivendicazione del diritto di un popolo a essere antimoderno. L'arpione del ragazzino ha risvegliato vecchi rancori contro la «colonizzazione permanente» dei bianchi, il loro complesso di «superiorità morale» e l'«istinto missionario» dell'Occidente praticati oggi con altri mezzi, come la guerra della «cultura corretta metropolitana alla caccia e alla tradizione».

In questi anni di reportage nell'Artico ho potuto verificare come la questione della caccia proprio perché per gli inuit è l'unica ragion d'essere è vissuta come una caccia alle streghe. «Ci ha rovinato più Brigitte Bardot del global warming», mi ha detto la scorsa estate un pescatore e cacciatore di foche di Narsaq: «Se potessimo ancora esportare pelli di foca in Europa non saremmo costretti a trasformarci in minatori, o a vedere i nostri figli emigrare in Danimarca o morire di alcol e disperazione». A Barrow, il centro abitato più a Nord degli Usa, il capitano Ned mi ha accolto nella sua baracca, solo dopo una meticolosa perquisizione: niente telefoni né taccuino. «Guarda, ci trattano peggio che se fossimo dell'Isis», ha detto. Sul suo cellulare almeno un centinaio di minacce di morte.

Che cosa spinge un individuo di Chicago o Londra a desiderare la morte del capitano baleniere Ned? E che cosa spinge quest'uomo a esibire sullo stesso telefonino il video d'una gigantesca creatura colpita a morte? Così come davanti ai resti dei trichechi macellati a San Lorenzo, si può intuire, più difficile capire.

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