Mondo

Il giornalista: "Per gli italiani in Guinea non facciamo abbastanza"

Lo Stato africano è un'altra Corea. Andrea Spinelli Barrile è un giornalista che lo conosce molto bene. E dopo il caso Berardi mette in guardia: "Altri rischiano"

Roberto Berardi, l’italiano detenuto nel carcere di Bata per più di due anni
Roberto Berardi, l’italiano detenuto nel carcere di Bata per più di due anni

“In Guinea Equatoriale si può essere arrestati perchè si denuncia il proprio stupratore o perchè si chiede al dirigente politico di turno di venire pagati per il proprio lavoro”. A parlare a ilGiornale.it è il giornalista Andrea Spinelli Barrile che conosce molto bene questo Paese e si è occupato in prima persona del caso di Roberto Berardi, l’italiano detenuto nel carcere di Bata per più di due anni e liberato il nove luglio scorso dopo un incubo fatto di maltrattamenti, pestaggi e abusi di ogni genere. E ora, altri cinque connazionali, rischiano di vivere lo stesso calvario in quella che viene chiamata la “Corea del Nord” dell’Africa.

Ci racconta la storia di Roberto Berardi e le ingiustizie che ha subito?

Roberto Berardi ha speso una vita professionale intera in Africa dell’Ovest come imprenditore: una persona di successo, amante profondo dell'Africa e della sua gente e dal carattere avventuriero. Era in Camerun quando gli è stato proposto di realizzare quello che in fondo era il suo sogno: la prima multinazionale edilizia africana. Il suo socio Teodorin Nguema, vicepresidente della piccola Guinea Equatoriale, lo ha però truffato trasferendo ingenti somme da conti correnti paralleli della società con la complicità di un sistema bancario corrotto. Questo reato il socio di Berardi l'ha riconosciuto patteggiando una multa da 30 milioni di dollari negli Stati Uniti per riciclaggio di denaro e corruzione. Gli americani la chiamano “cleptocrazia” mentre noi non sappiamo nemmeno cosa sia. Berardi è stato accusato da questo personaggio di appropriazione indebita e sbattuto in galera, un luogo di disperazione assoluta nella “Corea del Nord” africana. Si è salvato grazie al suo carattere: ha deciso di lottare ogni giorno, guadagnandosi il rispetto dei compagni di detenzione e tantissime violenze, picchiato, minacciato, affamato (ha perso 36kg in due anni e mezzo).

Il processo si è svolto senza nemmeno che l’accusa si presentasse o presentasse dei testimoni, gli è stato negato di vedere il suo avvocato, di incontrare i diplomatici italiani, ai quali è stato proibito l’accesso all'Aula. In Tribunale ci è arrivato in manette. Il giudice era al telefono con Nguema durante tutta l’udienza (un’unica udienza). La sentenza è ridicola e contraddittoria, poche pagine che lo hanno condannato a due anni e mezzo di detenzione, di cui 18 mesi trascorsi in isolamento. Avevano chiesto 18 anni. Un calvario incredibile dal quale ne è uscito grazie ad una forza che lo ha persuaso ad utilizzare ogni mezzo possibile per salvarsi la vita: un telefono, anzi dieci, sequestrati regolarmente (e regolarmente pestato), del cibo, medicinali. Io gli feci recapitare un libro.

Ci sono altri nostri connazionali detenuti in Guinea Equatoriale?

Nel momento in cui scrivo ci sono ben tre italiani detenuti ed altri due agli arresti domiciliari. Si tratta di Fabio e Filippo Galassi (padre 60enne e figlio 24enne), Daniel Candio (24 anni, amico e collega di Filippo), che si trovano detenuti a Bata Central, un carcere militare dei peggiori, nel quale è stato detenuto anche Berardi. Ai domiciliari ci sono Fausto Candio, padre di Daniel, ed una quinta persona che vuole restare anonima, che sono semplicemente “a disposizione” dell'autorità giudiziaria (che significa sequestro del passaporto e quindi mobilità limitatissima).

Quali sono le loro storie?

Fabio e Filippo sono entrati in carcere il 21 marzo scorso, il 24 Filippo è stato mandato ai domiciliari, ma a loro carico non ci sono ancora capi d’accusa chiari: appropriazione indebita, vendita di beni della società, esportazione di capitali all’estero, truffa, ma francamente sono le stesse accuse che lessi nell’istruttoria del signor Berardi, poco o nulla circostanziate. A carico di Filippo Galassi a dir la verità non c'è proprio nulla nè di ufficiale nè di ufficioso. Come anche per Daniel: niente di niente. Sono tutti di Roma, lavorano in un’azienda italoguineana chiamata General Works e vivono in Africa da poco: il primo a partire fu Fabio, che in Italia era cassintegrato, nel 2011. Poi fu raggiunto dal figlio Filippo all’inizio del 2014 e dal suo amico d'infanzia Daniel, entrambi ventiquattrenni. Seguiti poi da Fausto, padre di Daniel, anch’egli in difficoltà lavorative qui in Italia. Persone le cui famiglie sono composte soprattutto da donne tenaci e che dimostrano ogni giorno una forza ed una determinazione da vere leonesse: parliamo di lavoratori e non di drogati di adrenalina.

Qual è la situazione in generale per i detenuti in Guinea Equatoriale?

Terrificante. Il libro che sto scrivendo con il signor Berardi, “Esperanza”, sta riportando alla sua mente immagini di puro orrore, che va oltre la sua condizione di “detenuto speciale”: la tortura è sistematica, in particolare durante le inchieste di polizia. Esiste una vera e propria squadra specializzata in questo tipo di attività, la Fuerza Especial. I commissariati di Polizia sono luoghi di orrore, le torture e i pestaggi avvengono negli scantinati, durante la notte, per terrorizzare gli altri detenuti con le urla.

Le carceri sono in mano ai militari e alla Fuerza Especial e sono letteralmente riempite di guineani e soprattutto stranieri, camerunensi, maliani, ciadiani, gabonesi, ivoriani, persone buttate all'inferno perchè senza documento, tra l’altro nemmeno necessario per via degli accordi internazionali tra i paesi dell'area Franco CFA.

I detenuti sono chiusi dentro vere e proprie gabbie per fiere, tanti quanti riescono a entrarci in piedi: caldo insopportabile, situazione igienica drammatica (non c’è nemmeno un medico o un infermiere), escrementi ed urina ovunque, pasti inadeguati (un pugno di riso e un’ala di pollo, quando va bene, al giorno), pestaggi continui per mantenere il controllo della paura, torture ed uccisioni (in barba alla moratoria per la pena di morte firmata dal governo di quel Paese).

In un suo articolo scrive che la Guinea Equatoriale “sfida l’Italia”. Cosa vuol dire?

Esattamente questo: la vicenda di Berardi e quella dei Galassi, così legate tra loro nel tempo ma così distanti nel merito, è un campanello d’allarme che non va sottovalutato. Un campanello d'allarme per noi, che abbiamo dimostrato di non avere delle procedure chiare ed efficaci in questo senso, sia diplomatiche che giuridiche: la Farnesina ha avuto un comportamento a tratti davvero imbarazzante, soprattutto all'inizio, dimostrando di non conoscere nemmeno la realtà locale e spesso accettando soprusi e bugie manifeste da parte dei suoi interlocutori. Va detto che l’assenza di un’ambasciata italiana in quel Paese non ha certamente aiutato. A troppo poco sono servite le (pure assai) persone di buona volontà come il console Massimo Spano. Non basta, e questo i guineani lo sanno bene: un governo corrotto e criminale in cerca di altro denaro che scopre una falla in un sistema diplomatico non può fare altro che infilarcisi per estorcere più denaro possibile. Le assicuro che è l’unico motore che fa muovere quelle persone. C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare: il panafricanismo con il quale quei criminali si fanno scudo altro non è che razzismo (prima di tutto contro la loro stessa gente) utilizzato a scopo di propaganda per consolidare la credibilità politica della corrotta famiglia Obiang. Per questo sia Berardi che Galassi sono finiti sulla tv di Stato in servizi di propaganda, presentati dai giornalisti come dei criminali bianchi venuti in Africa a depredare la povera gente.

Cosa fa la diplomazia italiana?

La macchina diplomatica andrebbe, quella sì, rottamata. Ci sono al suo interno ingranaggi, componenti e parti di altissimo valore diplomatico ed istituzionale ma è il meccanismo ad essere terribilmente farraginoso ed elefantiaco. E le mosche bianche non servono a nulla. Spesso non abbiamo gli strumenti giuridici (ad esempio per perseguire la cleptocrazia, ben più grave della semplice corruzione, e tutelarne le vittime), altre volte preferiamo addirittura girare la testa dall’altra parte.

Non abbiamo la cultura nè gli strumenti per trattare con queste persone che di fatto sono criminali internazionali (tra l'altro ricercati da mezzo mondo, nonostante il tappeto rosso al Presidente Teodoro Obiang a Città del Vaticano, 4 volte nel 2014) ma sembra anche che spesso ci sopravvalutiamo un po' troppo, soprattutto con un regime che sembra essere uscito da un libro di Salgari ma in realtà è nel rapporto di Amnesty International sulla tortura nel mondo.

Dunque, l’Italia, potrebbe fare di più?

Certamente. Se posso permettermi, da giornalista, dico che la prima cosa da fare è cambiare i protocolli di comunicazione con le famiglie: abbandonare letteralmente le famiglie di queste persone alla disperazione è altrettanto crudele che tenere sequestrato il loro congiunto in Guinea Equatoriale per due anni e mezzo. Non si può dire sempre “stiamo facendo il possibile” senza spiegare cosa sia questo “possibile”. E poi: perchè non provare a fare l’impossibile? Indipendentemente dalle antipatie o meno che si possono creare, ci dovrebbe essere un dovere istituzionale da rispettare. Sostenere con ogni mezzo le famiglie, che tra l’altro generalmente sopportano anche costi esorbitanti per i processi all’estero.

Altrettanto importante sarebbe dare un sostegno psicologico, ai familiari come ai “ritornati”.

Commenti