Cultura e Spettacoli

GULAG La tragedia dei «pionieri»

GULAG La tragedia dei «pionieri»

Grazie alla pubblicazione del volume di Nicolas Werth (L’isola dei cannibali, Corbaccio Editore, 2007) anche il lettore italiano conosce l’allucinante episodio del trasferimento forzato, nel 1933, di migliaia di cittadini sovietici reputati «socialmente nocivi» nell’isola siberiana di Stalino, dove, privi di alloggio e di mezzi di sussistenza, gli sventurati cercarono di fuggire, si dispersero nelle campagne, dettero l’assalto alle case dei villaggi vicini, divennero ladri, assassini, cannibali e quasi tutti morirono d’inedia, mentre i pochi sopravvissuti si uccisero a vicenda o furono sommariamente giustiziati.
Che questa vicenda non abbia costituito un semplice caso isolato, che non sia stata generata semplicemente da una tendenza sadica e criminale o dalla «banalità del male» postasi al servizio di un deliberato programma di sterminio di massa, ma che, invece, abbia fatto parte di un organico progetto destinato a realizzare gli ideali del socialismo ce lo rivelano, con larghissima documentazione inedita, due recenti e accuratissimi studi: Lynne Viola, The unknow gulag. The lost world of Stalin’special settlements (Oxford University Press, pagg. 278, £ 17,99) e Thomas Kinzy, Gulag. Life and death inside the Soviet concentration camps (Firefley, pagg. 496, $ 69,95).
Nel 1930, Fedor Eikhams, un pluridecorato ufficiale del corpo di sicurezza, inviava all’amministrazione centrale un dettagliato rapporto, nel quale si faceva osservare che l’Urss possedeva a ridosso dei suoi confini orientali e settentrionali sterminate regioni, scarsamente popolate ma abbondantemente provviste di ogni tipo di ricchezza naturale: carbone, rame, alluminio, petrolio, oro e argento, animali da pelliccia, sconfinate riserve ittiche, terre da bonificare e coltivare. Tali risorse potevano e dovevano essere messe a profitto grazie alla creazione di numerosi insediamenti, che in breve sarebbero divenuti altrettante città ideali, centri di un’industria completamente socializzata e palestre di educazione al comunismo.
Sfruttare la frontiera siberiana, continuava il rapporto, richiedeva fede politica, abilità tecnica, ma soprattutto un enorme afflusso di forza lavoro. Nessuna istituzione civile poteva portare a termine questo titanico sforzo, che, invece, poteva essere compiuto dalla struttura del Gulag, che era stato costruito sulla base di una «rigida disciplina militare» e che era in grado di contare su di «una larga flessibilità economica e una sperimentata esperienza nel superare ostacoli di ogni tipo».
Il progetto incontrò il gradimento di Genryk Jagoda, un alto burocrate, responsabile del servizio di sicurezza statale, soprattutto per il suo retroterra ideologico. Secondo Jagoda infatti, «prigioni e campi di concentramento non erano altro che inattuali vestigia del passato borghese», mentre il nuovo sistema penale sovietico doveva impegnarsi a conquistare nuove ricchezze, grazie all’utilizzazione di decine di migliaia di detenuti, che si sarebbero resi del tutto autosufficienti grazie alla loro attività, costruendo le loro abitazioni, coltivando i campi per il loro sostentamento e lavorando, allo stesso tempo, nei nuovi centri minerari.
Il lavoro, la possibilità di riscattarsi dal loro passato di «nemici del popolo», le nuove possibilità offerte da una natura incontaminata e generosa avrebbero vincolato i prigionieri alle loro residenze, senza bisogno di catene, sbarre, cancelli, sorveglianza. In pochi anni, gli insediamenti si sarebbero trasformati in «città proletarie» assolutamente autonome, che avrebbero mostrato orgogliosamente al mondo il «destino manifesto» della patria del socialismo.
Alle parole di Jagoda, Eikhams faceva seguire i fatti, impiantando una prima colonia in un’isola del Mar Bianco, composta di forzati, guardiani, chimici e geologi. L’esperimento parve dare rapidamente i frutti sperati. I nuovi arrivati fraternizzarono tra di loro e con i nativi. I prigionieri erano privi di ogni tipo di sorveglianza. Lavoravano, ogni giorno, otto ore nel sottosuolo, rimanendo poi liberi di procurarsi alimenti in grado di integrare la dieta regolamentare. Battute di caccia congiunte venivano organizzate tra detenuti e custodi, gli uni e gli altri egualmente armati. Nelle ore di riposo si tenevano pubbliche letture di classici e veniva messa in piedi la redazione di un piccolo giornale, a cui faceva seguito la nascita di club dove era possibile dibattere la dottrina del marxismo-leninismo e discutere le sue future, progressive realizzazioni.
Riprodotto su più larga scala questo tentativo provocò invece un’immane catastrofe umanitaria, quando quasi mezzo milione di prigionieri vennero deportati nelle regioni della Russia orientale e settentrionale, in Siberia e nel Kazakistan, senza trovare in quei luoghi nessuna struttura che permettesse loro di portare a termine il loro compito e di sopravvivere. Stremati dagli infernali ritmi di lavoro, dall’asprezza del clima, dall’assoluta mancanza di cure mediche, la maggior parte di essi morì per denutrizione e per malattia.
Numerosi gruppi di sopravvissuti scelsero la via della fuga negli immensi spazi dell’Urss, trasformandosi in bande criminali organizzate, attive fino alle città di Mosca e Leningrado e sulle coste del Mar Nero. Le autorità scateneranno contro gli ex forzati colonizzatori, che si erano ormai trasformati in una vera e propria minaccia all’ordine sociale, una gigantesca caccia all’uomo che non sortì tutti gli effetti desiderati. Fino alla fine degli anni Trenta, le città, le ferrovie, i porti, le strade del colosso sovietico furono infestate da numerosi casi di banditismo, che non fu possibile reprimere completamente neanche con la violenza della spietata dittatura staliniana.
Da quel momento in poi i cancelli dei Gulag si chiuderanno di nuovo ermeticamente dietro le spalle di dissidenti, delinquenti comuni, vittime innocenti delle tantissime purghe di Stato. Intanto nelle stanze blindate del Politburo e del Cremlino si accumulavano rapporti e memorie che cercavano di investigare i motivi di un così colossale fallimento, il quale, in realtà, era solo la metafora della disfatta della pianificata economia sovietica nel suo complesso, nella quale l’utopia di liberare l’uomo dalla schiavitù dello sfruttamento capitalistico aveva prodotto, per contrappasso, in tutta la Russia, un unico, sterminato universo concentrazionario, un immenso ergastolo a cielo aperto dove si era persa ogni distinzione tra lavoro libero e lavoro forzato.


eugeniodirienzo@tiscali.it

Commenti