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Hernan Diaz, il cuore selvaggio dell'America

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Hernan Diaz, il cuore selvaggio dell'America

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Davide Brullo

La scena più bella è a pagina 65. Lo sgangherato eroe del romanzo incontra John Lorimer, eccentrico scienziato scozzese sbarcato in una pallida e lunare America del tardo Ottocento. «Girò la testa e vide una fitta collezione di vasetti... contenevano un liquido giallognolo in cui galleggiavano lucertole, ratti, scoiattoli, gatti, ragni, volpi, serpenti e altre creature». Lorimer è uno che cerca le relazioni tra le cose, compara le interiora della bestia alle galassie, certo che «la lepre, come un filo d'erba o un pezzo di carbone, non è semplicemente una minuscola frazione del tutto, ma contiene il tutto dentro di sé», perché «ogni singola cosa si irradia nella totalità... tutti gli esseri viventi sono legati l'uno all'altro». Questo è il cuore di un romanzo potente e singolare, Il falco (Neri Pozza, in origine, In the distance), finalista allo scorso premio Pulitzer, in cui Hernan Diaz riesce nella cosa più difficile. Creare un personaggio che ti si pianta nella testa. Håkan Söderström, ribattezzato «Il Falco», figlio della miseria svedese, approda per sbaglio in California. Håkan è gigantesco, è bianco, è forte, senza cultura, trapiantato in una purezza australe, pazza, pare l'incrocio fantomatico tra Frankenstein e Don Chisciotte. Travolto dalla crudeltà degli uomini, in un Far west folgorante di tenebra, ripiegato nella leggenda («era un puma - l'ha ucciso a mani nude», dicono), Håkan, controeroe angelico, «percorse deserti e guadò fiumi, scalò montagne e superò pianure. Mangiò pesci e cani della prateria, dormì su muschio e sabbia, scuoiò caribù e iguane», penetrando una libertà impossibile, che dilania. «Mi interessava esplorare la solitudine radicale e il disorientamento», mi dice Diaz. Il libro, in effetti, è anomalo, un meteorite nella narrativa statunitense.

Studioso di Jorge Luis Borges («una presenza colossale nella mia vita»), Diaz percorre le tracce di Cormac McCarthy («Ho letto Meridiano di sangue, l'ho ammirato infinitamente, e ho scelto, per questo, di non leggerlo più»), adottando una scrittura «biblica», laboriosa e labirintica («oseremo mai contemplare un cadavere senza il sudario della superstizione, nudo, com'è realmente? Materia e nient'altro», sussurra Lorimer), elevando il western ad anamnesi esistenziale, a dissezione della mostruosità umana.

Riemergendo dalla lettura, letale, finisce che desideriamo essere come Håkan, «senza una destinazione precisa, senza altro scopo che la solitudine», uomini nudi, puri, archiviati nell'innocenza, silenti nel mondo desolato.

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