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"Ho fatto fortuna con l'arte perché sono un provinciale"

È l'italiano più influente nel settore della contemporanea: «Per me il curriculum degli artisti conta poco, guardo le loro opere...»

"Ho fatto fortuna con l'arte perché sono un provinciale"

Massimiliano Gioni è l'italiano più influente nel mondo dell'arte contemporanea, il quindicesimo più potente del settore secondo ArtReview che annualmente stila la classifica Power100. C'è poi un dettaglio non proprio trascurabile: il mercato della contemporanea è in continua espansione, soprattutto negli Stati Uniti dove si concentra il 42% dei milionari e quindi degli investitori: qui in un anno sono state vendute opere contemporanee per 582 milioni di dollari, il 95% dei quali a New York. Ed è qui che è approdato Gioni, 44 anni, nato e cresciuto a Busto Arsizio, ma adolescente già in Canada per completare gli studi di scuola superiore. Si è laureato al Dams a Bologna per poi entrare nella redazione di Flash Art Italia, passando presto a quella di New York, la città dove quel giovanotto di provincia folle, affamato e - aggiunge lui - squattrinato, diventava qualcuno: curatore d'arte e direttore di musei di grido. Ora è il direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi di Milano e del New Museum of Contemporary Art di New York. Ha curato le Biennali di Berlino, Gwangju, San Sebastian, Lione, Sydney e Venezia di cui è stato direttore nel 2013.

Dietro ogni grande uomo c'è sempre una grande donna, si dice. Per la verità, nel caso dei coniugi Gioni, la donna è perfettamente al fianco. E' Cecilia Alemani direttrice e capo curatrice di High Line Art di New York, e del Padiglione Italia alla 57esima Biennale di Venezia. Una coppia assai influente a New York. Che in tema d'arte contemporanea vuol dire il mondo.

Cosa fa sì che New York continui ad essere il centro nevralgico dell'arte mondiale?

«Le Gallerie più potenti sono qui, le opere più interessanti transitano da qui. C'è un'offerta che per quantità e qualità non ha eguali nel mondo. New York è la numero uno, non c'è dubbio».

Seguita da?

«Londra, altro bel centro di distribuzione, si parte dalla presenza delle case d'asta. Sia Londra sia New York sono cosmopolite, attraggono abitanti dai Paesi del Golfo, Russia, Cina, riuniscono il meglio della domanda internazionale».

Dopo anni nella città che non conosce il sonno, non avverte un po' d'insofferenza per la frenesia newyorchese?

«Di New York mi ha sempre colpito il fatto che si lavora tanto, ma in un contesto dove i tempi morti sono cancellati. Non si perde tempo. Quindi sì, lavoro 7 giorni su 7 però non lo avverto come un peso. Ci sono almeno otto musei di qualità straordinaria dedicati alla contemporanea, gallerie, centri che puoi visitare in un solo giorno, spostandoti in metropolitana. E' una città progettata per minimizzare lo spreco del tempo».

Cos'altro l'attrae di NY?

«A costo di sembrare meteoropatico, di New York apprezzo un aspetto che la rende imbattibile rispetto a Milano: la luce. Anche negli inverni più grigi, c'è la luce. E questo crea uno stato d'umore ottimista, aiuta a pensare che le cose possano migliorare. Comunque aldilà del meteo, e spero non sia un'illusione, New York dà l'impressione di essere aperta alla novità, all'alterità e diversità. Anche in una fase come questa in cui il presidente Trump fa scelte di altro tipo, rimane una città cosmopolita e internazionale, con un senso di mobilità sociale che non si trova da noi».

Da Busto Arsizio alla Grande Mela. Venire dalla provincia l'ha resa più affamato?

«La cosa più bella della piccole città e che le vuoi lasciare presto, dice Andy Warhol. Il fatto di essere nato a Busto Arsizio mi ha spronato a immaginare un mondo più grande. Quindi sì, in parte è vero. Vedremo cosa accadrà a mio figlio, lui sta crescendo fra New York e Milano».

A 15 anni era già fuori casa

«Grazie a una Borsa di studio che mi consentì di frequentare un liceo a Vancouver Island».

Il suo primo lavoro?

«Spero di non prendermi una denunciaLo confesso: scrivevo tesi a pagamento. Prima della laurea avevo già consegnato un bel po' di tesi e tesine di storia dell'arte, storia, letteratura italiana. Poi collaboravo con case editrici come redattore e traducevo romanzi rosa della collana Harmony».

Il primo lavoro nel mondo dell'arte?

«Con la rivista Flash Art, preceduto da una serie di collaborazioni non retribuite. Con amici producevo una rivista online, ma niente soldi».

E' l'italiano più potente in tema d'arte contemporanea. Il potere logora o logora chi non l'ha?

«A proposito di aforismi alla Giulio Andreotti. Non ricordo le sue parole esatte, ma suppergiù diceva che fama e potere sono un po' come il latte, bisogna sempre controllare la data di scadenza. E comunque opero a stretto contatto con gli artisti e il loro sogno è essere i fautori del proprio destino. Quindi puoi rientrare in qualsiasi classifica che ogni artista si sentirà sempre il sovrano del mondo, e tu parti sempre da capo».

Come seleziona gli artisti che coinvolge nelle mostre?

«Anzitutto dipende dalla città in cui si realizzano. Mostre che faccio a NY non avrebbero senso in Italia, e viceversa. Si tiene conto di cosa desideri maggiormente il pubblico. Con Fondazione Trussardi c'è sempre stato il desiderio di far vedere quello che non si sarebbe visto se non l'avessimo promosso noi. A New York si lavora di più sull'imprevisto, è una città molto aperta alla novità, preferisce l'imprevisto alla consacrazione».

Per dire che, in compenso, l'Italia resiste al nuovo?

«Sì, ma solo a livello istituzionale. La contemporanea non è più percepita come polverosa e accademica. Il pubblico è curioso. A Milano abbiamo visto il pubblico più generico e vasto che potessimo aspettarci, i visitatori hanno scoperto che l'arte può essere parte della vita quotidiana, e che è un esercizio salutare la destabilizzazione che talvolta provoca l'impatto con la contemporanea».

Cosa non può mancare nel CV di chi si candida a una Sua mostra?

«A costo di suscitare una pioggia di email, dico che in arte è importante dove si ha studiato ed esposto, ma è l'opera ciò che più conta. Anche alla Biennale di Venezia avevo incluso artisti meno canonici, senza curricula prestigiosi. Ovviamente quanti lavorano con gallerie celebri godono di una certa visibilità e si muovono in contesti speciali».

Chi sono gli Italiani che ha coinvolto fino ad ora?

«Carol Rama, Maurizio Cattelan, Diego Perrone e tanti altri, però vorrei sottolineare che siamo orgogliosamente internazionali».

Qual è il ruolo dell'artista oggi? interpretare la contemporaneità, prefigurare il futuro. C'è dell'altro?

«Dipende da dove e come. Terra Inquieta (ndr mostra a Milano promossa dalla Fondazione Trussardi) portava alla ribalta questo. Era un'esposizione centrata sull'artista inteso come reporter, storico. Tuttavia non è quello il ruolo di tutti gli artisti a Milano o a NY. Se dovessi semplificare rischiando il banale, direi che il ruolo dell'artista è guardare laddove noi non guardiamo».

Terra Inquieta si è appena conclusa. E' tempo di bilanci

«Una mostra molto impegnativa, più difficile di quelle che avevamo preparato in precedenza con Fondazione Trussardi. Assai dura, s'è parato di tragedie. Però siamo riusciti a spostare sull'arte un interesse che per questi Paesi si concentra in modo esclusivo sulle questioni di cronaca. Abbiamo aiutato a riflettere sul fatto che in questi Paesi vi sono anche tanti artisti».

Che rapporto ha con Milano?

«Mi è sempre piaciuta. Da ragazzo la vedevo con gli occhi del provinciale che aspira a raggiungere la metropoli, il grande mito. Rappresentava il polo dell'arte e della cultura, dell'avanguardia di Fontana e di Manzoni, di Eco e di Berio. Negli anni Novanta, il mondo dell'arte si era richiuso su se stesso, ma Milano era la più dedita all'arte contemporanea.

E' stata poi fondamentale la forza propulsiva derivata dal connubio fra Arte e Moda, penso a Prada, all'Hunger Bicocca, alla Fondazione Trussardi. Perché dal Duemila in poi, e in maniera aggressiva negli ultimi 10 anni, una bella iniezione di energia è venuta dalle fondazioni private che paradossalmente hanno reso pubblica l'arte, hanno dato una nuova scossa. Ero poi scettico sugli effetti di Expo. Ammetto che ha dato una sferzata di energia, ha instillato il desiderio di credere in sé».

L'obiettivo di una mostra e, più in generale di un museo, è porsi al centro del dibattito sull'arte. Ci sta riuscendo a New York? Lì, la competizione è sfrenata

«Il 2017 è un anno speciale, festeggiamo i quarant'anni dalla fondazione e i dieci da quando ci siamo trasferiti nell'edificio progettato da Kazuyo Sejima. Scherzo dicendo che entriamo nella crisi di mezza età, e per questo siamo adulti ma continuiamo a essere giovani e scavezzacollo. E' sempre vivo lo spirito sperimentale. E poi abbiamo una collocazione logistica strategica: siamo vicino a luoghi dove si produce, al fare dell'arte, alla vita quotidiana dell'artista».

Al New Museum siete legati alla contemporanea in modo esclusivo o andate anche a ritroso nel tempo?

«La nostra vocazione è per l'oggi, ed è il tratto che ci distingue. Nel frattempo altri musei, il caso del MoMa, hanno iniziato a interessarsi alla contemporanea, tenendo conto dell'esplosione del mercato, ma è uno dei segmenti. Noi partiamo dal contemporaneo, che magari mettiamo a dialogo con materiale storico, però è solo un dialogo».

Se avesse carta bianca e potesse scegliere di andare al timone di un museo pubblico, per quale opterebbe?

«Ciò che trovo veramente eccitante è creare, inventarsi percorsi come abbiamo fatto con Beatrice Trussardi e la sua Fondazione. Potrebbe essere interessante guidare un museo come il Moma, per citarne uno blasonato, ma l'attività con la Fondazione e le varie Biennali è un qualcosa che ormai mi identifica, non è una questione di istituzione semmai di percorso fatto».

Sua moglie fa il Suo stesso mestiere. Che regola vige in casa Gioni? Vietato parlare d'arte o è inevitabile, piacevolmente inevitabile?

«Le conversazione con mia moglie sono spesso legate all'arte. Finisce, quindi, che anche nel tempo libero si lavori, ma paradossalmente forse è anche un sistema per lavorare la metà».

In compenso pare che le pareti di casa vostra non abbiano quadri.

«Sì, sono bianche. Da quando c'è il bimbo, abbiamo iniziato a inserire qualche opera per educare l'occhio, prima non c'era proprio nulla».

Ha la fama di divoratore di libri. Quanti al mese?

«Cecilia suole dire che guardo solo le figure, in realtà cerco anche di leggerli. Il punto è che acquisto troppi libri, più di quanti riesca a leggere. Dedico la pausa pranzo a sfogliare e leggere, la priorità va a ciò che devo leggere per il mio lavoro. E comunque NY è una città dove è difficile godersi dei romanzi perché si è bombardati da informazioni. La letteratura è un passatempo per le vacanze natalizie ed estive».

Lavora fra New York e Milano, con un bel fuso orario di mezzo. Come organizza le giornate?

«Anzitutto tramite le email si riceve così tanto materiale che la giornata va riorganizzata quotidianamente. Mi alzo alle 6.30 e per prima cosa rispondo alla posta. Mi dedico ai progetti in Italia e nel resto del mondo. Alle 10 sono in ufficio e mi concentro sui progetti di New York. Fra le 6 e le 8 di sera visito inaugurazioni, possibilmente con mia moglie Cecilia.

Si cena, e se ci sono lavoretti in sospeso li ultimo».

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