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"Ho fatto nascere la Rai Ma ci sono voluti 14 provini"

La prima presentatrice italiana, ora apprezzata giallista: "La tv è stata il mio mestiere, eppure ho rifiutato Sanremo: il pubblico mi fa paura"

"Ho fatto nascere la Rai Ma ci sono voluti 14 provini"

È successo un giorno del 1952. In Italia la televisione non era ancora nata. Elda Lanza aveva 28 anni e una rubrica su Grazia («il direttore era Renato Olivieri, che poi è diventato un giallista famoso, guarda il caso»). Racconta: «La Rai chiamò Olivieri e gli chiese: Chi è l'architetto che scrive quei begli articolini di arredamento? E lui: Lanza».

Così Elda Lanza fu spedita a colloquio da Attilio Spiller, allora direttore della tv sperimentale. «Arrivo in questo stanzone vuoto, in corso Sempione 27, terzo piano. Lui è laggiù, un signore con una sciarpa bianca. Mi vede e dice: Ma lei è una donna. Gli parlo, gli spiego che avrei potuto scrivere testi di arredamento... È entusiasta. Dice: Bene, cercheremo una donna bellissima, per andare in video. Lei farà i testi. Poi dal fondo dello stanzone si alza Franco Enriquez, regista: Io questa la voglio in video perché, quando parla, parla con tutta la faccia. E ha una voce che ti piglia qua».

Non è finita. «Mi fanno fare 14 provini davanti alle telecamere. Parlo di qualunque cosa. Dopo il quattordicesimo provino, dalla regia scende un signore alto, bello, chic. Mi chiede: Scusi signora, si intende anche di calcio?. E io: Non so neanche in quanti si giochi. Lui: Ah, meno male, se no dovrei cambiare mestiere. Era Nicolò Carosio, la voce delle radiocronache. Fu molto carino, gentile». È così che Elda Lanza è diventata la prima presentatrice della tv italiana. Ha condotto trasmissioni per le «signore», come si chiamavano allora (è il '54, quando la Rai trasmette i primi programmi). Ha conosciuto e lavorato con tutti i «grandi» del piccolo schermo.

Poi ha avuto un figlio, ha lasciato la televisione, ci è tornata, l'ha rilasciata, si è buttata nelle pubbliche relazioni creando una agenzia tutta sua, si è occupata di storia del costume (ha anche scritto saggi sul galateo, come Il tovagliolo va a sinistra, Vallardi), infine - a 87 anni - si è messa a scrivere: finora ha pubblicato sette gialli (da Niente lacrime per la signorina Olga al nuovo La bestia nera, tutti pubblicati da Salani e con protagonista l'altissimo ed elegantissimo Max Gilardi) e un romanzo «con una storia d'amore un po' bisex» (Imparerò il tuo nome, Ponte alle Grazie). In mezzo si è trasferita da Milano a Castelnuovo Scrivia, dove vive, in una casa sulla piazza principale del paese, con il marito, l'ex pubblicitario Vitaliano Damioli. Ti offre una bibita buonissima, e delle ciliegie.

Elda Lanza, dice spesso di avere avuto tre vite. Partiamo dalla terza. Come ha iniziato a scrivere?

«A dire il vero io mi penso da sempre con una matita in mano, come Armani da bambino si acconciava i foulard... Però quando scrivi un romanzo devi meditarci. E a questa meditazione sono arrivata tardi».

Come mai i gialli? Le piacciono?

«Mai letto uno in vita mia. Il nonno era molto colto; se gli avessi chiesto un giallo mi avrebbe dato in mano Delitto e castigo, come fece quando avevo 11 anni. Infatti poi ho dovuto rileggerlo. Insomma sono cresciuta circondata dall'idea che il giallo fosse un libro scadente».

Poi?

«Arrivo, in età avanzata, sola, in un momento turbolento ma in buona salute, nella casa al mare di una amica, a Mentone, con il primo computer della mia vita, il faro davanti alla finestra e nessuna connessione internet. E di colpo penso a Olga, protagonista di una novella di Pirandello che leggevo sempre a mia nonna: me la vedo, questa anziana signora, me ne innamoro, e la faccio morire a pagina 3. E poi fino a pagina 365 spiego perché. Metto tutto in un cassetto, poi il mio amico Mariano Sabatini lo manda a dieci editori. Mi risponde Salani: Ci piace molto, se vuole lo pubblichiamo».

Non si è più fermata.

«Sono arrivata a sette gialli. Ma ne ho già scritti altri quattro: mi sono preparata la vecchiaia...».

Chi le piace fra gli scrittori di gialli?

«Nessuno. Sono difficile».

Ha scritto anche un romanzo erotico.

«Più che erotico, molto doloroso. La protagonista di Imparerò il tuo nome non sono io, ma il suo disagio è stato il mio: quello della solitudine, il senso di abbandono».

Di quale abbandono parla?

«Quello dei miei genitori. Prima una, poi l'altro, fra i tre anni e mezzo e i nove. Terribile, per un bambino. Un bambino infelice non sarà mai un adulto felice, anche se vivrà tante belle cose, come me. Dentro ho questo senso di essere sola, non capita. Insomma in quel romanzo ci ho messo del mio, il cuore e l'anima. Come nel Tovagliolo va a sinistra ho messo anni di lezioni di costume; ma quella è routine, è stato il mio mestiere per tanti anni».

Come è finita a fare lezione in Giappone?

«Mi aveva chiamato l'Accademia di Belle arti di Osaka. A fine corso avevano imparato ad arrotolare gli spaghetti sulla punta della forchetta, che neanche le signore milanesi».

Negli anni passati in televisione chi ha incontrato?

«Tutti. Ma non mi sono mai sentita una di loro. Dario Fo mi diceva: Ridici sopra, qua non ti prende sul serio nessuno. Però questo loro gioco mi ha guarita. Sono stati compagni di viaggio, che mi hanno schiarito la testa».

Chi erano?

«Dario Fo, Walter Chiari, Giorgio Gaber. Amici carissimi, venivano a casa nostra, spesso stavano a mangiare o a dormire da noi. Nessuno di loro mi ha mai corteggiata. Provavo una tenerezza infinita per Walter Chiari: era bravissimo, intelligente. Poteva parlare per un quarto d'ora di un chiodo, e ti faceva ridere. Geniale».

E le donne?

«Antonella Steni. E poi Bianca Maria Piccinino, che mi ha stupito, perché era il mio contrario: io effervescente, lei precisa, profonda, ma bravissima, intelligente. E poi tutte le altre, nessuna esclusa: tutte bravissime e bellissime. Lo scriva, mi raccomando».

Che cosa faceva in tv all'inizio?

«Una trasmissione per le signore, donne fra i 30 e i 45 anni. Era d'avanguardia per l'epoca, ma io sapevo chi avevo davanti».

In che senso d'avanguardia?

«C'è uno spezzone del '54 in cui dico: Parliamo di donne e affrontiamo la questione che riguarda i diritti e i doveri nel matrimonio. Una volta sono stata da Indira Gandhi, sul suo terrazzo, ospite con dei giornalisti. Tutti le hanno fatto le loro domande, e alla fine io le ho chiesto: Com'è essere donna in India?».

Che cosa ha risposto?

«Si è irrigidita. Non ha risposto. In quei primi anni in Rai ho incontrato anche Eco».

Eravate amici?

«Ridevamo, ci prendevamo in giro, ma ci siamo voluti bene. Ci siamo reincontrati dopo tanti anni. A un evento mi ha detto, ad alta voce: Ho letto il tuo libro e mi è piaciuto. Ci siamo scritti fino a due mesi prima che morisse. A volte mi rispondeva: Boh. È bello avere amicizie importanti, però vivendo a lungo si perdono... Una volta sono andata anche da Montale».

Per fare che cosa?

«Per intervistarlo. Lui naturalmente non ha voluto. Stava seduto con un plaid sulle ginocchia. Però ha aperto un suo libro e mi ha detto: Lei che ha una bella voce, me la legge?. Una poesia dedicata alla moglie morta, capisce? Era un periodo così, ho conosciuto tutti. Armani l'ho incontrato da ragazzino, faceva le vetrine per la Rinascente. Poi una sera vado in un sottoscala e lo vedo lì, col suo socio, e mi mostra le prime cose che ha fatto. La Krizia una volta mi dice: Sai, hai il gusto dell'improvvisazione, vorrei fare una società con te. E io: Hai bisogno di un ragioniere».

Perché ha lasciato la tv?

«La prima volta per forza: accettai la pubblicità dei Pavesini, ma non si poteva, non era ancora arrivato Mike Bongiorno... Ero incinta. Dissi al direttore: In un mese mi danno quello che voi mi date in sei; quando avrete bisogno, mi richiamerete.

L'hanno richiamata.

«Passa un anno dalla nascita di mio figlio e suona il telefono. Mi chiedono di tornare in Rai: c'era una nuova trasmissione di libri per ragazzi, ma chi doveva condurla aveva dato forfait».

Com'è finita?

«È nato Avventure in libreria. Presentavo autori italiani, leggevo i loro libri: Soldati, Calvino... Calvino mi chiamò dall'Argentina per ringraziarmi, balbettava. E io pensai: è emozionato. Invece mi hanno spiegato che balbettava e basta. Poi dopo un po' di anni mi sono annoiata. Ero stufa».

Non ha più fatto niente in tv?

«Qualche trasmissione culturale. La tv non è né un vizio, né una malattia, né un rimpianto. È stato il mio mestiere e mi ha dato molto: io ho paura della gente, invece davanti alla lucina rossa mi sento a casa».

È vero che ha rifiutato di condurre il Festival di Sanremo?

«Come no. Era nato da poco mio figlio. Mi avevano fatto presentare il Festival internazionale di jazz, di cui sapevo niente. Mi davano dei foglietti da leggere e tremavo».

Sempre per la paura della gente?

«Una volta andai a intervistare Totò in camerino, con telecamera e microfono. Mi disse: Lei è un mostro. Io ero preoccupata. Continuò: Come si fa a ridere e scherzare davanti a un lumino rosso? Io voglio il pubblico. Ecco, io sono il contrario, la gente mi terrorizza».

Perciò rifiutò Sanremo?

«Esatto. Dissi: No, ho il terrore. Lo fece Fulvia Colombo».

È vero che all'università, dove ha studiato filosofia, è stata allieva di Sartre?

«Allieva è eccessivo. Appena finita la guerra, a Torino, dove ero iscritta, sentii parlare di questo Sartre. Così andai a Parigi e frequentai come uditrice le lezioni. Sartre a volte passava di lì, con la sua madama, e chiacchierava con noi, fumava, ogni tanto faceva la lectio. Era il '46-'47».

E la De Beauvoir?

«Lei sì, è stata importante. Ci raccontava del femminismo, veniva coi suoi fogli e ci parlava. Dopo due anni e con queste idee, sono tornata in Italia».

Si è laureata?

«No, perché mia mamma diceva che solo le donne brutte si laureano in filosofia. Va beh... A me interessava il contatto, come le volte in cui ho sentito le lezioni di Abbagnano a Torino».

Com'era Abbagnano?

«Era di una tale compostezza, ma diceva delle cose, quelle che volevo sentire».

Che famiglia era la sua?

«Una brutta famiglia. Un nonno meraviglioso, francese, che dovette italianizzare il nome sotto il fascismo, ma poi non ebbe problemi. Una madre bellissima, siciliana, di Porto Empedocle. Mio padre, nato a Genova per combinazione. Una famiglia che non mi sono goduta: me l'hanno distrutta sotto il naso, e da allora per me la famiglia è qualcosa da guardare con sospetto».

Come ha vissuto?

«A otto anni sono andata in collegio. Tutte avevano i genitori che le venivano a trovare; da me veniva o mio padre, o mia madre. E le bambine chiedevano perché. Crescere diverso è terribile: sai che sei diverso, perché sei peggio. E questo malumore di te per te, poi te lo porti sempre: ridi delle cose, ma dentro ti strizzi».

Il suo prossimo libro, che uscirà in autunno, si intitola «Uomini».

«Molto crudele, anche se scritto in modo divertente. Una analisi del maschio, visto dalle angolazioni peggiori».

Non ha buoni rapporti con gli uomini?

«No. Sono sempre stata una donna troppo forte, avanti. Forse è perché sono stata tanto sola e padrona di me, che sono sempre stata più pronta. Mio marito, per dire, con la matita era un genio: ma finché non l'ho preso io per mano e gli ho detto che cosa doveva fare... Una donna così non la vuole nessuno».

Ma il suo matrimonio dura da moltissimi anni.

«Sì, ma ci siamo anche separati tre volte, e altrettante siamo tornati insieme. Così, semplicemente guardandoci negli occhi. Faccio fatica anche io a crederci. Questa è la mia vita: non è stata gradevole, è stata dura. L'ho visto camminare con delle ragazzette di vent'anni, però sapevo che sarebbe tornato da me. Una tale sicurezza credo sgomenti. Forse lui pensava di meritare una diversa, più dolce, con le scollature... Comunque siamo ancora qua. Però nel libro mi sono sfogata».

Perché si è trasferita qui a Castelnuovo Scrivia?

«Inizialmente per la salute di mio marito. Poi ho preso in mano la biblioteca, l'ho rinnovata, sono diventata una di loro. Mi chiamano per strada: Elda!».

A proposito, che nome è Elda?

«Mi sarei dovuta chiamare Hildegard come la bisnonna, solo che per il fascismo non si poteva. Così Elda.

Ma per me va benissimo».

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