Cultura e Spettacoli

«Ho salvato il giallo tedesco col kebab»

Quando nel 1985 lo scrittore tedesco Jakob Arjouni pubblicò il suo Happy Birthday Turco (da poco ristampato in Italia da Marcos y Marcos) di certo non sospettava che quel romanzo avrebbe aperto le porte europee all’etno-thriller e che il suo detective turco Kemal Kayankaya sarebbe diventato immediatamente popolare, tanto da fargli scalare le classifiche di vendita germaniche e quelle europee. Il suo strampalato investigatore Kayankaya, costretto a sopravvivere fra le strade della moderna Francoforte divenne subito oggetto di adattamento cinematografico con Bullo e spaccone di Doris Dörrie e da quel momento in avanti il suo creatore ha avuto la strada spianata. Ha fatto crescere il personaggio in storie dal ritmo serrato e divertente come Carta straccia, Troppa birra, detective! e il recente Kismet-Destino. E che il noir fosse da sempre stata una sua passione ce lo confessa lo stesso Arjouni: «Ho letto il mio primo romanzo di Agatha Christie a nove anni, Piombo e sangue di Dashiell Hammett a undici. È stato un momento cruciale. Mi sentivo come Cristoforo Colombo alla scoperta di un nuovo mondo. Anche se non riuscivo a capire tutto, sapevo che un giorno ce l’avrei fatta. Hammett è ancora molto importante per me oggi».
Com’è nato Kemal Kayankaya?
«Avevo diciannove anni quando scrissi il primo romanzo della serie, Happy birthday, turco!. Mi trovavo nel sud della Francia e frequentavo l’università, ma ben presto capii che non ero fatto per studiare. Non parlavo la lingua e non conoscevo nessuno. Dando vita a Kayankaya, ho creato un amico per me con il quale chiacchierare. E senza neanche accorgermene ho scritto il mio primo romanzo e poi un secondo, mi piaceva stare in sua compagnia.
Quanto pensa che la caduta del muro di Berlino abbia riacceso in Germania certi odi e razzismi che lei spesso racconta nelle tue storie?
«La caduta del muro di Berlino è stato un evento sia nazionale che nazionalista, e nazionalismo e razzismo vanno sempre a braccetto. Il razzismo oggi è diventato qualcosa di scontato e di cui, quasi, non ci si vergogna più. Il problema è che - come per tutto - ci si fa l’abitudine. Oggi a Berlino e nell’Est della Germania, ci sono zone in cui non si può girare liberarmente, perché ci si potrebbe imbattere in neonazisti. È incredibile questo succede in Germania, sessant’anni dopo l’Olocausto. Eppure ti ci abitui. Perché non hai tempo. Perché devi andare a comperare il pane, a portare tuo figlio a scuola, al lavoro».
Com’è la Francoforte in cui si muove il suo protagonista?

«Francoforte è casa sua. Kayankaya è un figlio di quella città. Ed è certo per Francoforte prova odio e amore allo stesso tempo. È quello che fa chiunque con i luoghi e le città che conosce meglio. Più conosci qualcosa, più chiaramente ne vedi i difetti. Questo però non significa che non si arrivi poi ad amare quei difetti. Kayankaya è un francofortese vero. Che talvolta altri non la pensino così, perché ha un nome turco e i capelli neri, non cambia le cose».
Come si incontrano e scontrano le etnie a Francoforte?
«Come altrove, credo. Soprattutto in tempi di crisi. Come accade oggi al mondo su vari livelli: economico, filosofico. L’inquietudine induce nelle persone la tendenza a definirsi e a mettersi al sicuro divenendo parte di un gruppo - una religione, un movimento politico, la famiglia. E più le persone si definiscono in riferimento a un gruppo di appartenenza, più si perde il senso della responsabilità individuale, e più diventa facile essere pronti a rompere il contratto sociale per ottenere una fetta più grande della torta».
Perché ha scelto come teatro di molte delle tue storie proprio il quartiere a luci rosse della città?
«Perché conoscevo e amavo quella zona. È stato il primo luogo internazionale che io abbia conosciuto. Quando avevo sette od otto anni, spesso mio padre mi portava con lui in ristoranti stranieri in quel quartiere. Era il 1971, 1972, e a quei tempi a Francoforte potevi mangiare solo lì i carciofi, l’avocado, le cozze o le lumache. Forse è proprio per nostalgia, ma ricordo quel quartiere come un posto alla Irma la dolce.

Negli anni Ottanta, con la grande diffusione delle droghe pesanti - crack ed eroina - l’aspetto romantico si è perso».
Cosa vuol dire esattamente la parola «Kismet» che dà il titolo al suo ultimo romanzo?
«Sarà quel che sarà. È la vita. Quel che deve succedere succede».

Commenti