Cultura e Spettacoli

«Ho scritto libri per non essere un triste cronista di guerra»

Intervista con l’autore de «Il pittore di battaglie», premiato a Firenze come miglior narratore straniero. Ora esce in Italia l’ultima fatica: «Il Cavaliere dal farsetto giallo»

Inizia da giovane, mosso da curiosità e carico di aspettative. Come molti di noi che hanno scelto questo mestiere. Ma lui si spinge oltre, lontano dal desk e dalla routine, dalle notizie omologate e confezionate a tavolino. Lui il mondo lo vuol vedere da vicino, toccarlo con mano, solo così potrà raccontarlo come si deve. Diventa un affermato inviato di guerra, un volto televisivo che tutti conoscono in Spagna. Onori, gloria e adrenalina. Ma poi viene un giorno che ti guardi allo specchio. Intuisci che ti devi fermare. Il tempo passa, sai bene che una simile vita alla lunga potrà corrodere anima e corpo. E allora rifletti su quello che hai fatto sinora, su quello che sei o stai per diventare. E dici stop, rewind, ricominciamo da capo.
«Me ne sono accorto un giorno mentre parlavo con un vecchio cronista di guerra in un bar scalcinato. Era mezzo ubriaco e mi raccontava la storia della sua vita. Lui vecchio e disilluso, io giovane e consapevole di esserlo ancora per poco. Decisi che non sarei mai diventato come lui». E così è stato.
Arturo Pérez-Reverte, classe 1951, è il vincitore della seconda edizione del Premio internazionale Vallombrosa Gregor von Rezzori, voluto da Beatrice Monti Della Corte von Rezzori, a cui va dato il merito di svolgere un’importante ricerca finalizzata a individuare i migliori valori letterari nel campo della narrativa straniera. Un ulteriore riconoscimento per uno scrittore come Pérez-Reverte che di soddisfazioni ne ha avute già tante. Abbandonati gli scenari bellici, le forti emozioni e tutti gli orrori, l’autore nato a Cartagena (Spagna), asciutto nel fisico e con il piglio del combattente, decide di scrivere libri, un po’ per gioco e un po’ sul serio, almeno così oggi racconta.
«Ho scritto il mio primo libro mentre facevo ancora l’inviato. Avevo circa 35 anni. Il successo però è arrivato con il secondo romanzo, così ho deciso di dedicarmi completamente alla scrittura. Ho sempre letto molto nella mia vita, soprattutto da ragazzo, ma non ho mai pensato di diventare uno scrittore. La vita a volte ci sorprende. Sono stato fortunato».
È la stessa frase che ha detto ieri, quando le hanno assegnato il premio.
«Al presidente della giuria Ferrero, che mi ha definito un primus inter pares, rispondo soltanto che sono il più fortunato tra questi scrittori tutti molto bravi».
Così ci dice l’ex reporter la cui vita, dal 1994, è sempre in ascesa grazie a una densissima produzione letteraria: romanzi tradotti in 29 lingue, adattamenti cinematografici, premi e riconoscimenti a cascata, come quando è diventato membro della Real Academia Espanola. In Italia, i suoi libri pubblicati da Marco Tropea hanno venduto complessivamente un milione di copie, niente male in un Paese dove chi ne vende quindicimila è da considerarsi affermato.
Quanto hanno venduto i suoi romanzi di cappa e spada, ambientati nel Siglo de Oro, con le avventure del capitano Alatriste?
«Sei milioni tra Spagna e America latina di lingua spagnola (i primi sei titoli, ndr). Alatriste è nato perché mia figlia, allora tredicenne, si lamentava che quel periodo storico non fosse trattato sufficientemente bene sui libri di scuola. Così è scattata la molla e ho inventato questo personaggio. Il successo è arrivato soprattutto con i ragazzi».
C’è stato anche un film...
«Sì, Alatriste con Viggo Mortensen che mi è piaciuto molto».
Ci sono stati altri film tratti da suoi libri?
«Diverse produzioni hollywoodiane e non solo, in tutto nove, tra cui La Nona Porta di Roman Polanski con Johnny Depp».
Di fatto, i suoi libri hanno fatto centro grazie a una formula vincente: forte caratterizzazione storica, molta azione, personaggi robusti e intense passioni umane. (Esce, tra l’altro, il 22 maggio, Il Cavaliere dal farsetto giallo, Marco Tropea Editore. Traduzione di Roberta Bovaia; pagg. 288, euro 16.90). Ma è il suo libro Il pittore di battaglie, a segnare probabilmente una svolta. È il romanzo della guerra che non parla di guerra, ma di quello che la guerra produce negli esseri umani.
«L’uomo è l’animale più intelligente e pericoloso del creato. Abbiamo fatto dell’orrore un elemento di decoro. Non mi stupisce più nulla».
Vale a dire?
«Ero in un bar quando due aerei sono andati contro due grattacieli a New York. La gente davanti ai televisori urlava: “Incredibile, impossibile, irreale”. Mi sono detto: e io per questi imbecilli ho perso 21 anni della mia vita in tutte le guerre del pianeta? Allora non sono serviti a niente i 52 colleghi morti nella guerra della ex Jugoslavia».
La storia de Il pittore di battaglie è da considerarsi autobiografica?
«No, non sono io, ma ho prestato al protagonista, Faulques, i miei ricordi».
Lei ha dichiarato che non si tratta di un romanzo disperato.
«Esistono delle regole da seguire. Poi arrivano dei momenti storici in cui queste regole saltano. Ed è in quel momento che prende il sopravvento la crudeltà dell’uomo. Rimanere all’interno delle regole, fare in modo che tutti le rispettino, è l’unica speranza che ci resta».
La trama del libro: dopo trent’anni in prima linea, un ex fotoreporter di guerra in Bosnia, indurito e disgustato dal mondo si ritira in un’antica torre saracena affacciata sul Mediterraneo per dipingere un affresco circolare. Soggetto: una battaglia paradigmatica che le rappresenti un po’tutte, da Troia alle Twin Towers. Manca però sempre qualcosa, la fotografia che non è mai riuscito a scattare. Chissà se i fantasmi di Paolo Uccello, Piero della Francesca, Bruegel o Goya lo aiuteranno a comporre il puzzle, le simmetrie dell’orrore, ma anche i volti più cari che affiorano all’improvviso, come Olvido Ferrara, la donna amata dilaniata da una mina. E chissà se il blocco creativo è conseguenza degli orrori ai quali ha assistito o sarà che il suo lavoro non è sempre stato innocente e oggettivo come avrebbe dovuto? La risposta arriva puntuale. Un giorno si presenta il croato Markovic, l’uomo della fotografia, quella dell’ex fotoreporter che gli ha distrutto la vita. Lo scatto che lo ritrae soldato malconcio durante la ritirata da Vukovar ha fatto il giro del mondo, copertine, prime pagine. Lo vedono anche loro, i nemici serbi, che violenteranno, mutileranno e uccideranno la moglie insieme al figlioletto.

Morte, distruzione, vendetta.

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