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Hubner: «Fumo, corro poco, ma gioco ancora»

Il Bisonte oggi scende in campo. Roba grossa, Cavenago d'Adda-Castellana Castel San Giovanni. Il contratto è stato firmato, una Marlboro e una grappa, così Dario Hubner di anni quarantatrè, continua a dar calci a un pallone, roba che gli accade da quando a Muggia tirava il vento che si sa nelle terre triestine. Per il momento siamo al campionato promozione, girone F. Si può fare di più ma, vista l'età, suggerirei la prudenza. Secondo gli storici Dario Hubner, con l'umlaut in alcuni casi, avrebbe realizzato 335 gol, l'almanacco conferma, aggiungo che le squadre da lui frequentate sono 14, si va dalla Pievigina al PergoCrema, dal Fano al Cesena, dal Brescia al Piacenza, dall'Ancona al Perugia, dal Mantova al Chiari, dal Rodengo Saia all'Orsa Corte Franca Iseo, al Castelmella, per venire al Cavenago di mister Blacchi e del diesse Miglio.
«A correre da soli si finisce stupidi», parole e pensieri del bisonte. Per evitare lo stordimento, Hubner ha accettato l'idea, tanto Cavenago sta a chilometri tre da casa sua che è Passarera di Capergnanica, roba da far sanguinare le gengive alla pronuncia, in breve Cremona, e poi Crema per intenderci, dove esiste anche un bar, gestito dai parenti del Dario, porta il nome di Type, è il ritrovo dei nostalgici, come era il Tatanka, l'alta bottiglieria caffè dell'Hubner giovane, sito ideale per il grappino di cui sopra, la scopetta con annessa svaporina, cioè sigaretta, tutta quella roba lì che oggi, nel football contemporaneo, mai e poi mai, diete e integratori, ripartenze e palestre. La palestra di Hubner è l'orticello, insalata e affini, profumo di erba tagliata, alba umida e di luce, campagna d'Italia per uno che dell'Italia conosce stadi e alberghi, per uno che se l'è passata bene alla voce salario, per uno che quando Fulvio Collovati andò a prenderlo da Gino Corioni, presidente del Brescia, per portarlo a Piacenza dovette versare miliardi sei e garantire all'attaccante un ingaggio da gran signore, più di mille milioni. In cambio, Hubner segnò ventiquattro gol, capocannoniere della serie A, mai prima nella storia del Piacenza calcio. Se fosse nato a Rotterdam o Rio, a Lipsia o a Cannes, avrebbe ricevuto altra gloria. Ma non è stato soltanto una figurina da incollare sull'album. Lui, in verità, sognava l'Inter, Rummenigge e Altobelli erano gli idoli; un po' meno, oggi, Mario Balotelli: «Quando l'ho visto gettare a terra la maglietta ho provato un fastidio e una rabbia enormi. Ma come? Hai la fortuna di giocare in quella squadra, ti pagano, sei giovane e fai una roba del genere! Adesso in Inghilterra capirà che occasione ha perso, imparerà la lezione».
Ritorno all'orticello, alla sigaretta e alla grappa: «L'importante è non esagerare, sì ho fumato anche in panchina, purtroppo fumo ancora oggi, di correre non se ne parlava e non se ne parla, i chili sulla bilancia sono ottantasei, ero arrivato anche a novanta ma con il mister Blacchi si suda e si dimagrisce, faccio la dieta. Mi sento a posto ma so che è l'ultimo giro».
L'ultimo giro di football va a incominciare oggi, non è un addio alle armi, il fatto è che Dario frequenta il corso di allenatore, il prossimo anno dovrebbe ricevere il patentino di seconda categoria, per regolamento dovrà decidere: o in campo o in panchina. Ha già deciso, tanto c'è Marco, il figlio di dieci anni, che se la cava con il Pergocrema, stesso ruolo: «Ha il fiuto del gol ma è tifoso del Milan anzi stramilanista, la sua camera è tappezzata di fotografie dei rossoneri». La camera di Dario, il padre, prevede doppio baule con tutte e quattordici le casacche delle squadre in cui ha giocato, più i cimeli degli avversari, da Ronaldo a Sheva, da Zidane a Totti, a Del Piero. C'è anche quella di Roberto Baggio che era suo compagno a Brescia: «Ma il più grande, come uomo e come professionista, resta Filippo Galli, con lui due anni indimenticabili a Brescia. Ho avuto come compagno a Piacenza anche Amauri, era la mia riserva, lo spedirono al Chievo a farsi le ossa».
Marco, il figlio di Dario, avrebbe potuto avere in stanza anche un poster del padre con la maglia del Milan: «Mi portarono in tournée, l'allenatore era Ancelotti, il contratto era definito ma il Milan non aveva giocatori giovani e interessanti da dare al Cesena. Poi ci fu quella volta in cui sfiorai l'Inter: Delvecchio stava a Venezia e non accettò il passaggio a Cesena, passò alla Roma che girò Branca all'Inter. Non mi lamento, ho avuto quello che volevo. Facevo il fabbro, montavo l'alluminio, chi avrebbe mai immaginato una carriera del genere? La gente mi vuole ancora bene, mi riconosce, mi chiede l'autografo. Porto sempre il pizzetto, il colore dei capelli è quello dell'età matura. A questo punto non chiedo altro, la serenità e la salute di Marco, di Michela, i miei figli e di Rosa, mia moglie. Faceva la cameriera al ristorante, io frequentavo poco le discoteche». Di più le tabaccherie. Mi raccomando oggi a Castel San Giovanni, caro Bisonte, il solito: corsa lenta ma leggera, testa bassa, schiena leggermente curva, il portiere tenta l'uscita e op, un tocco sotto. Gol. Trecentotrentasei.

Seguono fumatina e bevuta.

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