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I cimiteri delle navi

I cimiteri delle navi

Migliaia e migliaia di tonnellate di ferro, acciaio, legno e vetroresina lasciate a marcire nel nostro mare come se nulla fosse. Da settimane, mesi, anni, decenni. Probabilmente per sempre, se non si interverrà. La clessidra dell'abbandono scorre inesorabile. Come colossi silenziosi addormentati a pelo d'acqua, immersi nelle profondità dei fondali, o con le ombre lunghe che si stagliano su banchine e pontili secondari. Così i più grandi porti italiani, da Trieste a Palermo, sono diventati dei cimiteri galleggianti tra incuria, indifferenza, sciacallaggio, rimpalli di responsabilità e abissi di burocrazia. Nessuno sembra vedere le «navi fantasma», un grosso problema per almeno tre motivi: sono un pericolo per la navigazione; una zavorra per lo sfruttamento economico di intere aree costiere, ma soprattutto sono una bomba a orologeria per l'ambiente. Secondo previsioni perfino ottimistiche, nel giro di pochi anni potrebbero essere più di 200mila le navi cargo a fine rotta, i pescherecci in disarmo e i natanti da diporto rottamati di cui bisognerà liberarsi. Politica, istituzioni, associazioni di settore, cantieri e imprese di demolizione cercano una soluzione condivisa: bisogna fare qualcosa per smaltire questi rifiuti molto particolari (o più spesso, purtroppo, quel che ne resta). In sicurezza e nel rispetto delle regole. Perché a chiederci di darci una mossa ora non è solo il buon senso ma pure i controllori di Bruxelles.

LA MAPPA DEL TESORO

Intanto ancora non si conosce con precisione l'entità del problema. L'ultima fotografia scattata dal Corpo delle Capitanerie di porto è di due mesi fa e riporta soltanto i «relitti navali», contandone 750 nei 15 principali porti nazionali, rade e aree limitrofe. Tra Genova e Livorno ce ne sono circa 180, una settantina a Bari, altri cinquanta ad Ancona, Civitavecchia e Palermo. In tutta Italia sono praticamente raddoppiati rispetto al 2008, quando ne erano stati censiti 450. Solo nel porto di Catania, le carrette del mare accumulate sarebbero nell'ordine delle centinaia di unità per l'afflusso continuo di barconi carichi di migranti. E lo stesso accade a Lampedusa, prima frontiera degli sbarchi nel Mediterraneo. Si tratta di imbarcazioni fatiscenti già in partenza, che quando toccano le nostre coste si collocano a metà strada tra il relitto e la nave abbandonata, il più delle volte messe sotto sequestro dalla magistratura e «parcheggiate» a tempo indeterminato in attesa di incastrare i trafficanti di esseri umani. E, per un assurdo cortocircuito, ci sono casi in cui tornano a essere l'ultimo rifugio di migranti anche sulla terraferma, quando non c'è più posto nei centri d'accoglienza. Quello dei 750 relitti navali «dimenticati» nei porti, per gli addetti ai lavori, è comunque un dato parziale perché il loro numero reale è sicuramente superiore. Oltre ai relitti dei colossi del mare, a preoccupare in prospettiva è l'enorme bacino delle barche al di sotto i dieci metri di lunghezza, proprietà dei diportisti, il popolo dei comandanti del fine settimana. Secondo le stime del ministero dell'Ambiente attualmente ci sarebbero 31mila natanti e piccole imbarcazioni abbandonati, per un totale di 42mila tonnellate di vetroresina. Un numero già di per sé allarmante, ma la situazione potrebbe finire presto fuori controllo. Secondo l'ultimo rapporto di Ucina, la Confindustria nautica, in Italia circolano poco meno di 600mila barche. Di queste, 103mila risultano iscritte nei registri degli Uffici marittimi e della motorizzazione civile, mentre la stragrande maggioranza, 475mila circa, non sono immatricolate. Un altro dato chiave è la vita media delle unità da diporto: dieci anni per canoe, kajak, natanti a remi e per uso sportivo, contro i vent'anni delle barche in vetroresina. Ebbene, dei 600mila scafi che solcano i mari italiani almeno un terzo, 191mila, avrebbero superato i quindici anni di età. Pertanto è lecito aspettarsi che a partire dai prossimi cinque anni dovranno essere smaltite (con modalità più green possibili, un'ipotesi è la demolizione termica a 800 gradi per ottenere idrocarburi), fermo restando il mercato del riuso promosso da cantieri e rimessaggi, in crisi già da diversi anni. Disfarsi di una vecchia barca, per un diportista, resta una faccenda complicata e costosa: riviste specializzate stimano in un euro al kg, o poco più di mille euro per metro di lunghezza, i costi a carico del proprietario esclusi quelli di trasferimento negli impianti dedicati.

CHI ABBANDONA LA NAVE

Così va avanti lo stillicidio delle barche abbandonate se non nei porti minori, addirittura sulle spiagge, come discariche a cielo aperto. La Guardia costiera ogni giorno è impegnata nella rimozione dei rottami, ma - come ammette un ufficiale - rivalersi sui proprietari di barche che nel 99% dei casi non risultano iscritte in alcun registro e sono prive di contrassegno è impresa quasi impossibile. Insomma, relitto senza castigo.

E poi c'è la spinosa questione dell'abbandono deliberato delle navi cosiddette «maggiori», quelle di grandi dimensioni per la navigazione d'altura. Una ventina all'anno rimangono di fatto ormeggiate come bene di nessuno nei porti italiani. Dietro c'è una scelta precisa degli stessi armatori, nella maggior parte dei casi stranieri e provenienti da Paesi ai margini delle convenzioni internazionali. Per un cinico calcolo di costi-benefici, armatori con problemi tecnici o economici (legati al carico che trasportano, certificazioni, assicurazioni, pagamento degli stipendi e debiti pendenti) decidono di mollare la barca con tutto l'equipaggio, che rimane come «sequestrato» a bordo per non perdere il diritto al risarcimento. «Fino due-tre anni fa quello dell'abbandono deliberato delle grandi navi era un'emergenza, anche dal punto di vista umanitario se pensiamo alle sorti degli equipaggi, scaricati in un paese straniero e a migliaia di chilometri di distanza come è successo a filippini, indonesiani, birmani... senza soldi e viveri», testimonia Giovanni Olivieri, coordinatore nazionale del sindacato internazionale dei marittimi (Itf). «Alla fine delle vicende giudiziarie, che possono durare diversi anni, per queste navi, se non colano a picco prima, qualcuno mette mano al portafogli o vengono vendute per rottami - continua Olivieri -. Dal 2013, però, con la ratifica dell'Italia della Maritime labour convention, che pone dei paletti molto rigidi sul trattamento del personale di bordo, la situazione è destinata a cambiare. Già oggi una nave non in regola con la Convenzione in un porto non ci arriva nemmeno grazie al controllo preventivo delle Capitanerie, o almeno così dovrebbe essere. A Napoli, tre mesi fa, un mercantile con equipaggio cinese è stato fermato prima ancora di entrare in porto perché non aveva i documenti in ordine». Qualche caso continua a ripetersi, come nella zona 34 del porto di Savona, dove a Natale ha attraccato per poi non salpare più il Moondy Bay, un general cargo di 11.194 tonnellate di stazza e 148 metri di lunghezza, battente bandiera delle Bahamas e che trasportava riso. L'equipaggio, marinai romeni e filippini, sono rimasti senza stipendio e diritti per un debito non pagato dall'armatore greco, in attesa che la magistratura sblocchi la pratica.

Facce diverse della stessa emergenza, che richiede contromosse tempestive. L'Unione europea ha varato nel 2013 un Regolamento sul «riciclaggio ecosostenibile» delle navi, per fissare regole comuni e arginare il fenomeno delle demolizioni di navi battenti bandiera europea in Asia, fuori dagli standard di sicurezza sanitaria e ambientale. Il rischio è che si risolva tutto in dichiarazioni di principio. Nulla, infatti, impedisce agli armatori europei di trasferire le flotte da rottamare verso bandiere di comodo aggirando l'ostacolo. Urgono perciò soluzioni efficaci a partire dai singoli Paesi.

UNA LEGGE IN CANTIERE

E in Italia il Parlamento si sta muovendo. Presso le commissioni Ambiente e Lavori pubblici del Senato è in corso la discussione di un disegno di legge, trasversale agli schieramenti, che punta a ridefinire la procedura di smaltimento salvaguardando l'ambiente e la sicurezza della navigazione. «Partiamo dal fatto che in Italia non esiste una norma che definisca cos'è un relitto», spiega il senatore Giuseppe Marinello, primo firmatario del ddl e presidente della commissione Ambiente di Palazzo Madama. Il provvedimento allo studio distingue appunto tra relitto, cioè una nave affondata o una nave semiaffondata «che si possa ragionevolmente prevedere che stia per affondare», una clausola che permetterebbe di agire ben prima che avvenga l'inabissamento. Una nave abbandonata è invece «qualsiasi nave per la quale l'armatore e l'eventuale proprietario, decorsi 30 giorni dalla diffida dell'autorità marittima, non ponga in essere alcun atto previsto dalla legge relativamente agli obblighi verso lo Stato costiero, il raccomandatario marittimo e l'equipaggio». Perché una nave abbandonata, per quanto datata e compromessa strutturalmente, conserva comunque un valore al quale l'armatore se messo nelle condizioni di intervenire per non perdere possesso del bene, difficilmente rinuncerà (una nave di 80mila tonnellate di stazza può essere «piazzata» ad almeno dieci milioni di euro). «Il punto cruciale del provvedimento - illustra Marinello - è l'introduzione di un Consorzio per la rimozione, lo smaltimento del relitto e il riciclaggio dei materiali in sintonia con le nuove regole Ue». Il Consorzio, secondo lo schema del ddl, sarà costituito da demolitori navali, cantieri e imprese del settore nautico con l'obiettivo di rilanciare l'occupazione. Per finanziare il progetto, si richiede che ogni nave che transiti nei porti nazionali versi un contributo ambientale. Una sorta di «tassa sul relitto» che sta creando parecchie resistenze tra le associazioni di categoria. I promotori del ddl vogliono chiudere la partita in commissione in autunno.

E scongiurare il rischio che a naufragare, insieme alle navi fantasma dimenticate lungo la Penisola, sia anche la volontà di cambiare rotta su un tema così delicato per la difesa del nostro mare, inestimabile patrimonio distribuito su ottomila chilometri di coste.

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