Controcultura

I fannulloni emarginati di Cossery inno alla gioia di vivere (con calma)

"Non far nulla è un lavoro interiore", diceva Albert Cossery. E nei suoi romanzi non ci sono differenze di classe, ma di modi in cui vivere la pigrizia

I fannulloni emarginati di Cossery inno alla gioia di vivere (con calma)

In una pagina di diario degli anni '60, Ennio Flaiano sta ad «ascoltare» Albert Cossery. Gli parla di donne: «Non posso prenderne un'altra. Se si trattasse di una volta sola, passi, ma il giorno dopo ti telefona, vuole vederti... Diventa un lavoro e io non ho più il tempo». Di viaggi: «Io non sono di quelli che credono che altrove succeda qualcosa. Io resto, qui, Parigi l'inverno, la Costa Azzurra l'estate, perché c'è il sole, il mare, e mi basta». Di manie: «Non posso soffrire il sole in città, il rustico in città, i ristoranti alla moda». Del mestiere di scrivere: «Se uno scrittore è prolifico dai un'occhiata alla moglie. È quasi sempre brutta. E che vuoi che faccia il poveretto? Scrive». Di soldi: «Non mi piace dare soldi alle donne. Se tu cominci a dargli soldi, ti disprezzano. Quando mi sono sposato, non avevo soldi, solo mia moglie lavorava, lei mi passava ogni tanto un assegno. Bene, non mi disprezzava affatto. E d'altra parte, io ero tranquillo, se mi avesse tradito, bene, sarebbe stato anche un suo diritto. Ma così, non le dovevo niente».

Cossery viveva allora in un piccolo albergo di Saint Germain-des-Prés, l'hotel La Louisiane, nella camera 58. Trent'anni dopo sarebbe passato alla 77 e questo sarà uno dei pochi spostamenti di tutta la sua vita e fino alla morte, a 94 anni, nel 2008. Egiziano, a Parigi era arrivato subito dopo la Seconda guerra mondiale e sempre a Parigi aveva pubblicato il primo dei suoi romanzi scritti in Francia, Les fainéants dans la vallée fertile, un po' la summa di quello che lui aveva sempre pensato: «Non far nulla è un lavoro interiore»; ovvero, «scrivo perché qualcuno che mi ha appena letto decida di non andare a lavorare l'indomani». I fannulloni nella valle fertile che ora appare in italiano (Einaudi, ben tradotto e introdotto da Giuseppe A. Samonà, pagg. 185, euro 18,50) non è solo un paradossale apologo, ironico e struggente, sul «non far nulla» come regola di vita, sul suo valore filosofico e politico, ma funge anche all'interno della narrativa cosseriana da anello di congiunzione fra il prima e il dopo.

In Italia Cossery è conosciuto poco e male. È un peccato, perché in settant'anni Cossery ha scritto fondamentalmente sempre lo stesso romanzo e una pubblicazione sparsa, ridotta e distanziata non riesce a rendere conto della ricchezza che sprigiona dalle sue uvres complètes (ed. Joëlle Losfeld) dove un'intera umanità è chiamata a raccolta per raccontare la propria quotidiana battaglia della vita e per la vita. Va comunque aggiunto che pochi scrittori hanno praticato, come lui, al massimo grado, l'arte della flânerie, ovvero il rifiuto della mondanità e del successo, il disinteresse per il denaro e per la visibilità.

Autore di lingua francese e in Francia, come abbiamo detto, vissuto per tre quarti della sua vita, tutta la sua narrativa ha però per epicentro il mondo arabo della sua giovinezza. È come se partendo dal Cairo si sia portato dietro un universo già formato e a questo universo, anno dopo anno, romanzo dopo romanzo, abbia dato fondo. Ne sono protagonisti e lo popolano personaggi marginali: ladri, straccioni, prostitute, ex professori finiti in miseria, ragazzi di buona famiglia che hanno rinunciato a qualsiasi carriera... La marginalità in Cossery non è uno stato di necessità, l'effetto di un rovescio economico, lo specchio di un conflitto sociale: spesso e volentieri è una scelta. I suoi romanzi girano intorno a un unico concetto: la felicità è roba da poveri. Già i titoli ci mettono sull'avviso: Mendicanti e orgogliosi, Un complotto di saltimbanchi, Gli uomini dimenticati da Dio, La violenza e l'irrisione, I fannulloni nella valle fertile, appunto... E ai titoli corrispondono i caratteri di chi è chiamato a rappresentarli: gente che al progresso, al consumo, al potere oppone un'ostinata resistenza fatta di ironia, disprezzo, passione per la vita nelle sue forme più elementari, il sesso, il sonno, il sogno, la contemplazione, la meditazione. Il risultato è la straordinaria ricostruzione di un mondo arabo-mediterraneo di segno rovesciato rispetto agli elementi classici dell'Occidente e dove gli infelici sono quelli che inseguono il successo, che detengono il potere, che lottano per il suo mantenimento.

Questa visione anarchica, panica e primordiale non ha nulla a che vedere con una interpretazione impegnata e/o progressista dei rapporti sociali. Cossery guarda con disinteresse a tutte le ideologie e mette sullo stesso piano chi pensa alla emancipazione dei popoli e chi invece lavora al loro sfruttamento. La sua formula letteraria e umana consiste nel negare valore al possesso, nel sostenere che meno si ha e più si è felici, che solo chi non può essere spogliato di nulla è veramente libero di fare tutto. Una formula che nel primo caso dà vita a figure ricchissime di profondità e di ironia e che nel secondo gli ha permesso di condurre questa esistenza da principe povero nel cuore dell'Europa culturale vivendo pressoché con niente, niente chiedendo e tutto accettando, in una logica di solidarismo difficile eppure percorribile.

Nato nel 1913 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, madre analfabeta, padre che tutt'al più leggeva il giornale, Albert scopre la scrittura a dieci anni, sui banchi dei Frères des écoles chrétiennes. La scopre nello stesso tempo in cui scopre il francese, «la lingua dei libri». Quando sbarca in Francia negli anni '40, in quella Parigi postbellica ed esistenzialista si lega a Camus, Giacometti, Henry Miller, Boris Vian: frequenta i locali notturni, La rose Rouge, è ospite a cena da Lipp, per l'aperitivo al café de Flore... È un'educazione letteraria e sentimentale Cossery ha sempre avuto un debole per le belle donne, specie se giovanissime - che fa tutt'uno con un'educazione alla vita in cui la pigrizia e l'ozio, ovvero la lentezza e la riflessione, sono le barriere da ergere contro la modernità, la velocità, la fretta, l'accumulo. Nella balzacchiana Commedia umana di Cossery gli unici per cui valga la pena appassionarsi sono la racaille, la canaglia, la ciurmaglia di un Quarto Stato senza dignità sociale. Ma proprio perché racconta la realtà araba della sua giovinezza, questa racaille, in realtà, non è di classe: le classi sono una creazione occidentale, trapiantata nel mondo arabo e a proprio modo attecchita fra sedimenti feudali, divisioni sessuali, retaggi ancestrali... Fra il popolo e il nobile c'è molto più commercio di quanto ce ne sia fra il popolo e il borghese, fra la borghesia e l'aristocrazia. L'industrializzazione e la proletarizzazione scavano ulteriori solchi, creano nuove stratificazioni sociali, avviano un processo di corruzione, di decadenza e di impoverimento pur nella apparente nuova prosperità di cui Cossery dà conto senza farsi illusioni e cercando, nell'ottica di una resistenza passiva, di ritardare il più possibile il disastro inevitabile e finale. Curiosamente, l'elemento religioso è del tutto assente da un tale orizzonte, e questo la dice lunga su quanto il fondamentalismo islamico sia più un effetto che una causa dei tempi. Allo stesso modo l'elemento erotico-sessuale, invece presentissimo, racconta un mondo molto più aperto e molto più portato al piacere di quello che da un ventennio a questa parte viene spacciato come costitutivo di quella civiltà.

Per citare i romanzi tradotti in italiano, Ambizione nel deserto, che è del 1984, già annuncia la guerra del Golfo, a dimostrazione di come Cossery sia uno scrittore perfettamente consapevole di ciò che lo circonda, ed è il racconto di una finta guerriglia scatenata in un povero emirato in una delirante logica che mira a trovare all'esterno il nemico da abbattere. Rispetto a Mendicanti e orgogliosi è tuttavia un libro minore, pur se con personaggi molto ben costruiti, perché è in quest'ultimo, scritto negli anni '50, che Cossery presenta al massimo grado tutti gli elementi della sua arte. C'è un delitto in un bordello, un delitto assurdo, nichilista, ma senza il disprezzo-distacco che si dovrebbe avere per la vittima. C'è un poliziotto che sogna un assassino intelligente quanto lui, e un assassino che ritiene di aver compiuto un delitto stupido e però, a suo modo, innocuo. C'è l'intellettuale rivoluzionario che si vorrebbe spacciare per un assassino e c'è la prostituta che dallo pseudo-assassino non vuole essere redenta... Il tutto sullo sfondo di una città che marcisce e dove l'unica salvezza è nel non fare nulla, chiamarsi fuori dallo sfascio, sopravvivere, annullarsi nell'estasi della droga e della vita. Con Un complotto di saltimbanchi è probabilmente il miglior romanzo di Cossery, ma, come dicevamo all'inizio, in realtà ciascuno rimanda all'altro, nella logica dei protagonisti, negli intrecci, nell'ambientazione.

E tutti rimandano a una sorta di strano inno alla gioia di vivere, alla bellezza della semplicità della vita, ancora più affascinante perché fatto cantare dai più disgraziati, dai più deboli, dai più indifesi, la schiuma della terra, appunto, i reietti della storia...

La gioia data dalla vita in quanto tale, dalla capacità di godere con poco e appassionarsi a tutto, di assaporare ogni singolo momento e di sapersi bastare, dal riso e dal sesso, dalla consapevolezza che non è necessario avere per essere e che padroni di niente si è signori di se stessi.

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