Cultura e Spettacoli

I giorni che Dio manda in terra

Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese? Solo uno scorcio, interessante ma non più di tanto. Del Medioevo, l’ex trafila di «secoli bui» ormai pienamente recuperata nel suo posto di tappa nel cammino dell’umanità, interessa ben altro. I fenomeni di lunga durata, che anche oggi hanno la loro brava impronta sul nostro quotidiano di occidentali capitalisti e secolarizzati, ma soprattutto le coordinate che fanno della famigerata età di mezzo quasi un mondo a sé. Coordinate fissate, più che dal cozzare delle armi e dagli scontri a colpi di bolle tra papi e imperatori, dall’umile quotidiano. Dal tran tran, per così dire. Dalla macellazione del porcello così come dai giorni di penitenza. Dalle case di legno alle pestilenze. Dal terrore per il peccato alla promiscuità forzata. Da una visione del mondo dove «l’aldilà» conta in maniera incommensurabilmente superiore rispetto all’«aldiqua». Da un modo di concepire lo spazio, il tempo, il presente e l’avvenire che ha perso la solarità greco-latina e non ha ancora abbracciato umanesimo e rinascenza.
Per la scuola storica francese, lo studio del «day by day» è un architrave, eretto da grandi del calibro di Georges Duby e Jacques Le Goff. Ma anche Robert Delort, in questo suo La vita quotidiana nel Medioevo che supera ormai i trent’anni d’età, non scherza. Il volume, non a caso, può essere considerato un «classico» della medievistica. In poco più di duecento pagine, viene affrescato un mondo. Diverso, si diceva. Instabile, nonostante fosse fortemente gerarchizzato nei tre ordini (coloro che combattono, coloro che lavorano, coloro che pregano) e informato da Santa Romana Chiesa. Vittima della diffrazione dell’antica unità imperiale, certo, dal tramonto del diritto universale allo sbrecciarsi delle strade rettilinee in grado di collegare città in rovina. Soprattutto, costretto a fare i conti, per secoli, con un ambiente ingovernabile, ostile, in continuo rivolgimento: «il boscaiolo e la sua scure lottano contro gli alberi, come il cacciatore e il suo spiedo contro il cinghiale, e il contadino, le sue bestie da tiro e il suo aratro col manico contro il terreno ribelle; l’uomo è solo contro il freddo, la fame, la malattia».
Insomma, siamo in un’epoca decisamente ante quella rivoluzione tecnologica che, poco alla volta, ci ha consentito di dominare la natura e colonizzarla, e post quella romanità urbanizzata che sembrava progresso invincibile e che un pugno di barbari germani ha travolto, acquedotti compresi. Delort apre la sua narrazione descrivendoci una geografia che non è più quella. Non solo per l’estensione di foreste da cui il villico spelluzzica poco a poco, in compagnia di un aratro di legno e trascinato dalla forza della fame, porziuncole di terreno, o dal nobile impegnato in vaste campagne di incastellamento e diboscamento. Ma proprio per fiumi deviati da catastrofiche alluvioni, laghi scomparsi, mari che «scalzano le scogliere», climi mutati a far la fortuna di certe zone e a sancire il tramonto di altre. A mutare diete e architetture.
Ecco, la sorpresa dell’opera di Delort, più che nella descrizione degli ordini monastici, nelle tensioni fra signori e vassalli, nei vari gradi di servitù del contadino o nelle «franchigie» delle università, in grado prima ancora che delle rinate città di liberarsi dai pesanti fardelli di signori laici e chierici, tutta roba che insomma è consueta sin dalle scuole elementari, è proprio nel «ritratto d’ambiente». In quelle famose coordinate spaziali, temporali, psicologiche che, durate centinaia d’anni, verranno spazzate via d’un colpo dal triplice attacco del nuovo umanesimo, di un «ordine» fuori dagli schemi formato da mercanti e borghesi e portatore di valori radicalmente diversi, rivoluzionari, e, come Delort non manca, con una punta di orgoglio gallico, di sottolineare, dall’insegnamento di Cartesio. E di chiudere con un filo di rimpianto. La chiusa, una citazione di Fossier, è quasi un manifesto: «un mondo dove il buon prodotto importava più del guadagno, il sentirsi fratelli più dell’esser compagni, il bene comune più dell’interesse privato, la rassegnazione più dell’iniziativa, la collettività più del singolo».

mb@maxbruschi.it

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