Cultura e Spettacoli

«I libri? Distruggerli è meglio che tenerli»

Lo studioso della lettura Roger Chartier afferma che il proliferare dei volumi è dannoso. E che nei testi il ruolo degli autori è marginale...

Roger Chartier, autore di Inscrivere e cancellare. Cultura scritta e letteratura (Laterza, pagg. XV-252, euro 35) e studioso di fama internazionale della storia del libro e della lettura, è a Milano per il convegno, apertosi ieri e che si chiude oggi, «Testi, forme e usi del libro» (organizzato dal Centro Apice) all’Università degli Studi di via Festa del Perdono 7.
Professor Chartier, il suo ultimo libro è un viaggio suggestivo nella cultura europea, da Cervantes a Diderot, dalla poesia orale alle gazzette. Ma contiene anche interessanti provocazioni: ad esempio, lei afferma che oggi cancellare i testi è altrettanto importante che conservarli, a causa della loro enorme proliferazione.
«La cancellazione è sempre stata recepita in maniera ambigua: da un lato come una perdita irrimediabile, una sparizione dannosa, contro la quale è necessario lottare per conservare i testi originali, pubblicandoli o raccogliendoli nelle biblioteche. D’altro lato, la cancellazione è stata vista anche come una risorsa per evitare l’eccesso di testi inutili, di scritti la cui proliferazione creava disordine e inquietudine - quella che Foucault designava come proliferazione del discorso. La cancellazione dunque deve essere considerata come uno dei dispositivi della necessaria “rarefazione” (anche questo è un termine di Foucault) per mantenere l’ordine del discorso. Oggi la stessa tensione si ritrova nella testualità elettronica che amplia all’infinito i discorsi possibili (ma con il rischio che il lettore si smarrisca in un universo testuale senza frontiere) e permette una cancellazione immediata, nel corso stesso della scrittura (ma ora con il rischio di una sparizione irrimediabile). Borges, in Funes el memorioso, mostra che l’oblio è la condizione della memoria - o almeno di una memoria che non paralizza. E Ricoeur riprende lo stesso tema nel suo libro La memoria, la storia, l’oblio. Questo si applica anche, credo, alla cultura scritta, dove la cancellazione è la condizione della conservazione - una conservazione ragionata, che renda la cultura scritta ordinata e fruibile».
La seconda provocazione è che gli autori non sono poi così centrali, perché scrivere è un «processo collettivo».
«Gli autori non scrivono i libri, nemmeno i loro. Tra XVI e XVIII secolo vi sono molteplici interventi tra il manoscritto dello scrivano e il libro stampato in mano ai lettori: quello del libraio editore, che decide il formato, la tiratura, le illustrazioni; quello del capo-stampatore, che regola il lavoro nel laboratorio; quello del correttore, che fissa la copia fornita agli operai tipografi (e che non è mai il manoscritto autografo); quello dei tipografi, con le loro abitudini e preferenze grafiche e ortografiche. Si può dire che il processo di pubblicazione - che implica molteplici luoghi, tecniche e competenze - è collettivo e produce non solo i libri ma anche i testi finali, le cui forme non devono nulla, o quasi, all’autore, e tutto invece alle regole e alle consuetudini del laboratorio tipografico. Alcuni scrittori ne erano consapevoli più di altri, ed è senza dubbio per questo che Don Chisciotte visita una stamperia nel capitolo 62 della seconda parte della storia, e il motivo per cui gli scrittori antichi lasciavano ai correttori e ai compositori la cura di sistemare l’ortografia, di mettere la punteggiatura e gli accenti».
Che influenza ha la tecnologia su questo processo collettivo?
«L’elettronica sembra trasformare radicalmente questa catena di interventi fra autore e lettore, poiché il testo composto sullo schermo del computer è lo stesso che è trasmesso ai lettori, e inoltre i libri sono stampati oggi a partire dal testo fornito in veste elettronica dagli autori. Tuttavia credo sia necessario ricordare che l’edizione elettronica non è la comunicazione elettronica. La prima presuppone infatti l’esistenza di un “editore” che costruisce un catalogo, di un processo di “editing” che rivede il testo fornito dall’autore, e di dispositivi che proteggono la proprietà intellettuale dello scrittore e il mercato dell’editore. Di qui la necessità di fissare i testi, sottraendoli alla comunicazione libera e gratuita della rete e sottomettendoli alle stesse operazioni e agli stessi obblighi dei testi stampati».
Nel suo libro c’è un capitolo su Goldoni, dove è sviluppato un parallelo fra i tessuti e i testi. Qual è il suo significato?
«La relazione testo/tessuto ha molteplici registri: etimologico, con la trasformazione dei significati della parola latina “textus”; metaforici, come il precoce paragone, nella Grecia del VI-V secolo a.C., del poema al tessuto, entrambi opera di artigiani; commerciale, con la compresenza di testi stampati e tessuti o strumenti di sartoria nelle balle dei venditori; materiale, con le scritture ricamate o tessute. La meravigliosa commedia di Goldoni Una delle ultime sere di carnovale, è un’espressione tenera e nostalgica di questa vicinanza, poiché descrive la produzione di un’opera teatrale utilizzando le gerarchie, le pratiche e le abitudini del disegno, della fabbricazione e del commercio dei tessuti di seta a Venezia».
Professore, lei fa anche riferimento - un’altra provocazione? - al ricamo come a una «scrittura femminile».
«Nelle società antiche le donne dovevano saper leggere per assumere il ruolo di insegnanti dei bambini (e le sculture che rappresentano Sant’Anna che impara a leggere dalla Vergine sono numerose nelle chiese). La loro capacità di scrivere è invece considerata inutile e dannosa, poiché permette una comunicazione che sfugge al controllo maschile, del padre, del marito, del curato. Di qui l’effetto paradossale del ricamo e della tappezzeria sulla cultura femminile: da un lato, queste attività chiudono le figlie e le donne in occupazioni, luoghi, sociabilità che sono loro proprie, tracciando una frontiera chiara tra mondo maschile e mondo femminile; ma dall’altro, quando l’ago scrive sul tessuto ricamato o sulla tappezzeria, la competenza proibita è riconquistata proprio da coloro che non avrebbero dovuto padroneggiarla».
Esempi significativi del ruolo delle donne nella scrittura sono, lei afferma, Filomela da un lato e Mirandolina dall’altro.
«Il tema di una scrittura con l’ago o la spola della tessitura deriva da testi famosi dell’antichità, per esempio dalle Metamorfosi di Ovidio, dove Filomela scrivendo sulla tela denuncia lo stupro di cui è stata vittima e che è stato commesso da Tereo, il marito di sua sorella Procne. Sono molti i testi medievali e moderni che riprendono questo motivo, e fra gli altri anche Tito Andronico di Shakespeare.

Mirandolina della Locandiera è l’erede di questa storia, perché sa ricamare, cucinare, ma anche scrivere e fare di conto; incarna la figura moderna dell’alfabetizzazione femminile, conquistata contro le norme stabilite e senza dubbio in parte grazie anche all’esercizio di attività tipicamente femminili».

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