Cultura e Spettacoli

I miraggi quotidiani di Naldini

Il riassunto d’una esistenza. O una crepuscolare Satura nella quale si accatastano vita vissuta e vita sognata, l’eros e i suoi fantasmi. E le angosce radicali, e qualche rara, devastante euforia.
Nico Naldini sembra aver raggiunto, in questi ultimi, linearissimi versi di I confini del Paradiso (L’Ancora del Mediterraneo, pagg. 172, euro 15), una sorta di zona di frontiera dove coabitano ricordi, frammenti autobiografici, proiezioni verso un avvenire che tende via via a confondersi con l’immaginario. Certo: in un eventuale esercizio o gioco volto a rintracciare I confini del Paradiso, le alternative non mancherebbero. L’ipotesi più elementare è, ovviamente, legata alla storia personale dell’autore. E allora il «Paradiso» si troverebbe in quella Tunisia dove da tempo risiede per lunghi periodi dell’anno. Terra zeppa di storia (storia stratificata: Cartagine, Sant’Agostino, l’Islam, Flaubert, un presente inquietante e tragico... ), striscia costiera affacciata sul mare, soprattutto sul deserto. E nel deserto compaiono i miraggi, il principio della realtà si liquefa, acquistano legittima consistenza, le allucinazioni, le distorsioni della percezione. Avvicinarsi al «Paradiso», intuirne i confini significherà, dunque, avvertire la presenza o le prime avvisaglie di quel mundus hymaginalis (studiato a fondo, forse non è un caso, proprio dalla più evoluta filosofia araba) situato al di là dell’esperienza sensibile.
Esiste un’altra ipotesi: che il «Paradiso» si trovi situato in un oltrevita del quale, di nuovo, Naldini intuisce la presenza incombente. Da questo punto di vista, la malinconia che attraversa le sue pagine ha qualcosa di seriamente straordinario: le eventuali pulsioni tetre o depressive o saturnine delle terze e quarte età vengono mandate sullo sfondo per lasciare spazio a uno stato di sospensione sognante e quasi stordente nel quale un passato incerto, confuso, macerato e distante si confonde con un avvenire ancora ipotetico ma prefigurato come vicino, imminente. Non c’è nulla di cattolico o consolatorio in questa tonalità che, al contrario, è spietatamente lucida, disingannata, frontale.
Se Nico Naldini ha sempre coltivato l’estro naturale dell’osservatore attento e appartato, tale vocazione raggiunge i momenti di più alta esaltazione in un libro in qualche misura estremo. Perché le cose adesso appaiono sospese tra un «qui e ora» via via più sfumato e un altrove invisibile ma ormai prossimo, quasi in vista. Le tinte sono quelle vaghe della sera. Eppure, forse, dopo la sera non ci sarà il buio o il nero o il nulla, ma qualcosa d’altro. Cosa, non è ancora dato saperlo, men che meno raffigurarlo. E può essere che non sia nemmeno così importante conoscerlo. Interessa, invece, evidenziare che tutto può essere colto nell’attimo che precede lo svanire, in un tempo che sembra sottrarre consistenza al tutto, dilatarne i contorni, offrire una già favolosa controimmagine della vita.

E se fosse questo, il Paradiso? Situato non oltre i suoi confini, ma esattamente in quei confini stessi.

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