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I monasteri tengono sveglia la memoria

Libri e tessuti antichi, icone e stampe: così i monaci conservano le tradizioni in estinzione

I monasteri tengono sveglia la memoria

Devi restaurare la vecchia edizione di un volume pregiato? I migliori artigiani del settore portano un abito religioso. C'è da riparare o riprodurre un tessuto antico? Se ci si rivolge a un monastero di suore di clausura si va sul sicuro. Si cerca un laboratorio d'arte dove trovare miniature, imparare a dipingere icone, ripristinare affreschi? Anche in questo caso la via più breve è bussare a un convento. Per non parlare di attività tradizionali, un tempo molto diffuse ma oggi in via di estinzione, come la confezione di ceri, la stampa al torchio, la preparazione di cosmetici artigianali e di farmaci galenici, l'erboristeria e la distilleria. Frati, monaci e religiose stanno diventando gli ultimi e spesso unici - custodi di un passato ricco e vivace, depositari e difensori di una sapienza antica che va lentamente scomparendo.

C'erano una volta gli artigiani che facevano di tutto. Oggi ci sono i robot che costano poco, impiegano meno tempo e sembra risolvano qualsiasi problema. Ma l'unguento al tepezcohuite non sanno prepararlo. E nemmeno conoscono le ricette di certi sciroppi, gli ingredienti dei colori per le icone su legno, le procedure per ricostruire i tessuti degli arazzi o i segreti per elaborare una birra trappista secondo tradizioni che risalgono al medioevo. Il problema è che quasi nessun altro sa più fare queste e altre attività, che un tempo venivano praticate e tramandate perché rappresentavano una cultura, un territorio, un contesto geografico e sociale, e anche un mezzo di sostentamento; mentre oggi rischiano di perdersi, sorpassate dalla tecnologia e dalla trascuratezza.

I baluardi

Monasteri e conventi sono gli ultimi baluardi di un passato che rischia di andare perduto. Furono i monaci benedettini a creare i codici miniati che tramandarono l'enorme patrimonio culturale dell'antichità precristiana, e ancora oggi sono i monaci a far sì che libri e codici vengano preservati. All'abbazia benedettina di Praglia, nel silenzio dei Colli Euganei alle porte di Padova, è in attività un laboratorio di restauro di volumi antichi inaugurato nel 1951 a servizio di enti pubblici, enti ecclesiastici e privati. L'archivio stima almeno 25mila interventi su manoscritti, incunaboli, incisioni, mappe, disegni: migliaia di opere sopravvissero qui alle alluvioni di Venezia e Firenze del 1966.

Nell'abbazia di Santa Giustina, nel cuore della città veneta in Prato della Valle, funzionava anche una legatoria. E qui prospera un laboratorio di iconografia, come pure nel monastero di Bose (Biella), all'abbazia San Benedetto di Seregno (Milano), nel monastero cistercense femminile di Valserena (Pisa) e nel convento delle clarisse di Santa Maria Maddalena a Sant'Agata Feltria (Rimini). Un'arte sacra nata nei primi secoli del cristianesimo che ha espressioni originali in varie zone geografiche; opere nelle quali si fondono simbologie teologiche e speciali regole per preparare i colori naturali utilizzando terre, polveri d'oro, tuorlo d'uovo, vino.

Alla comunità piemontese di Bose fondata da padre Enzo Bianchi, a fianco di un'intensa attività agricola e artigianale, spicca un telaio su cui vengono tessuti a mano arazzi con fili di lana e seta secondo tecniche antiche. L'abbazia cistercense di Morimondo, nella campagna tra Milano e Abbiategrasso, conserva uno scriptorium per l'analisi scientifica, la catalogazione e la digitalizzazione di manoscritti medievali conservati in biblioteche e università di tutto il mondo, da Oxford a Princeton, dal Vaticano a Berkeley. Nei laboratori si organizzano corsi di miniatura e di pittura murale, sia per le scuole sia per gli adulti, in cui si tramanda l'arte dell'affresco e della pittura a calce.

Nella quiete perfetta dell'isola di San Giulio, in mezzo al lago d'Orta, le suore di clausura del convento Mater Ecclesiae, fondato quarant'anni fa dalla madre badessa Anna Maria Canopi, applicano la regola benedettina di preghiera e lavoro con un laboratorio unico al mondo in cui si restaurano tessuti antichi. Dalle loro mani passano paramenti sacerdotali trapuntati d'oro, arazzi, vestiti, merletti da restituire al loro aspetto originale anche attraverso apparecchiature ad alta tecnologia come uno scanner e un microscopio elettronico.

Alcune religiose hanno competenze specifiche, una è laureata in chimica e una in architettura; tutte hanno frequentato corsi di restauro. Sono lavori senza tempo, anche nella realizzazione: le monache non fanno straordinari, seguono rigorosamente gli orari scanditi dalla regola interna e dalle ore della preghiera liturgica.

Cibo di clausura

E non si contano le clausure che producono cibi, infusi, liquori, vini, cosmetici, farmaci galenici seguendo procedure secolari. Furono i monaci medievali a bonificare le campagne di tutta Europa e a coltivarle, a produrre vino e birra, ad allevare api per il miele e bovini da cui trarre latte e formaggi: il grana padano vide la luce nel 1134 nell'abbazia benedettina di Chiaravalle, poco fuori Milano, e anche il parmigiano reggiano nacque nei monasteri emiliani nel XII secolo quando essi erano anche stalle, caseifici, silos, e bisognava trasformare il latte per conservarne la maggior quantità possibile. Dalla necessità che ciascun monastero provvedesse all'autosostentamento, secondo la Regola dettata da San Benedetto, è nata una civiltà dei campi, dell'artigianato, della viticoltura: il monaco Dom Pérignon produsse il primo champagne. Del resto, il vino è necessario per celebrare la messa, come il pane.

Costretti a una dieta rigida e a un ritmo di vita metodico, i monaci e le monache perfezionarono le tecniche per preparare e conservare i pochi cibi prodotti e consentiti. «La cucina dei religiosi scrisse Léo Moulin, storico belga del monachesimo è involontariamente all'origine della gastronomia». Molti conventi custodiscono ricette segrete per creme, unguenti e preparati cosmetici. Se ne trovano all'abbazia di Casamari, al convento carmelitano di Loano, a Praglia, all'eremo marchigiano di Monte Giove. La spezieria dell'eremo di Camaldoli, in Toscana, ha quasi mille anni (il primo documento che ne attesta l'esistenza è del 1048) ed è legata all'origine stessa del monastero nel quale San Romualdo curava i malati. Oggi vi si trovano una biblioteca e un laboratorio galenico dove si ottengono prodotti per la cura del corpo vecchi di secoli. Alcuni balsami ed elisir vengono ancora lavorati secondo le prescrizioni tardomedievali: l'amaro Laurus 48, a base di alloro ed erbe aromatiche, è prodotto in base alla ricetta di fine Quattrocento custodita nella biblioteca dell'eremo. Era usato per accogliere i pellegrini e risollevarli dalle fatiche del cammino.

Anche oggi i suoi 48 gradi, tutti naturali e artigianali, sono una botta di vita.

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