Cultura e Spettacoli

I panni sporchi della GLOBALIZZAZIONE

La «crisi olimpica» scredita la Cina anche come modello economico. I mutui mettono ko l’Europa e l’Inghilterra dubita del proprio modello di sviluppo

L’assenza di Gordon Brown dalla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici è un altro di quei sintomi ai quali la élite di sostenitori della globalizzazione poco bada. Eppure lo Spirito del Tempo, come lo si chiamava una volta, risulta dal succedersi di eventi i quali paiono diversi e in sé indifferenti, ma via via si sommano. Cosicché la Cina e le sue prepotenze in Tibet e la crisi delle Olimpiadi, durante una grave crisi bancaria mondiale, il suo effetto tra la gente lo fa. Si somma alla generale stanchezza per i troppi immigrati in Europa; all’impoverimento dei redditi; allo sconforto per l’invenzione dell’euro. Così da generare in chiunque sempre più il dubbio, e un rapido perdere di senso della globalizzazione e delle sue promesse.
È la percezione generale che si va accelerando in questi anni. Sta concludendosi un ciclo, e ne sta precipitando la crisi. Perché, appunto, a essere screditato nella vicenda olimpica non è solo il dispotismo comunista cinese. Ma a ben vedere pure l’idea che la Cina sia la nazione e l’economia da inseguire nella globalizzazione. Un altro paradigma che crolla, come il sistema dei derivati sui mutui. E crolla per tutti, e ovunque. Non c’è infatti nazione europea che non si senta in uno stato di disagio, e peggio: di emergenza, proprio come ci sentiamo noi italiani.
In effetti sarà forse perché i nostri guai sono covati dal nostro eccesso di vanità, e perciò li crediamo solo nostri, ma in Italia crediamo troppo spesso di stare, senza confronto, peggio degli altri. E invece neppure gli inglesi, il popolo della Thatcher e della City, che dà la sua lingua alla globalizzazione, si sentono meglio. Neppure la loro flemma riesce a far finta di niente. E addirittura il magazine inglese The Spectator sta divenendo catastrofico. Ha messo in copertina un Gordon Brown che sta per precipitare con l’abisso, aprendo con un editoriale di David Selbourne, autorevole pensatore di parte conservatrice inglese, dal titolo poco flemmatico: «We Live In A State Of Emergency: And We Are Getting Angrier». Ma è ancora meno rassicurante nei suoi argomenti, dai quali può dedursi come quei guai, che paiono solo nostri, sono di tutto l’Occidente. Scrive infatti Selbourne: «Le malattie delle democrazie occidentali stanno affliggendo le società più liberali conosciute nella storia. Tra le altre cose la Gran Bretagna soffre per una crescente ineguaglianza, mancanza di case, una qualità in declino del sistema sanitario, la crescita di molti crimini, una pedagogia mancante, l’impoverimento agricolo, e un’enorme mole di debito al consumo». E ancora così descrive i partiti principali: «Ridotti nell’organizzazione e negli iscritti e coi loro principi ereditati in dissoluzione...».
Insomma anche là si mette male. Al punto che l’editorialista di questo magazine che certo non è di sinistra, si mette poi a citare addirittura il discorso alla Camera dei comuni di Cromwell del dicembre 1644, «le persone sono scontente in ogni angolo della nazione», dicendola una frase vera anche oggi. Del resto: «La scala dell’esodo dalla Gran Bretagna è una misura di questo scontento, uno dei tanti» scrive ancora Selbourne. E aggiunge: «In questo stato di emergenza... i partiti offrono poco più che l’improvvisazione di chi tappa la falla di una diga con un dito». E chi potrebbe scrivere con onestà diversamente oggi in Italia e non approvare il nostro inglese quando, ancora citando Cromwell, parla di troppi concetti fraintesi e mal applicati? E quando dice che la globalizzazione è il primo di questi fraintendimenti? Con tesi prossime a quelle di Giulio Tremonti, sostiene infatti che una crescita economica resa misura unica del progresso nazionale e la globalizzazione stanno rovinando tutto. E scrive: «In Gran Bretagna questo interesse della nazione è stato gradualmente sommerso e svenduto a forze di mercato subordinate a una giurisdizione extraterritoriale, e nascoste alla vista».
Insomma le coincidenze tra idee come quelle di Tremonti e l’evolversi del pensiero non laburista persino tra gli inglesi sono del più grande interesse. Un abisso sta aprendosi davanti a noi tutti, popoli europei, e le favolette della globalizzazione e dell’euro paiono peggio che inutili, sempre più nocive. Come appare ovvia l’altra tesi di Selbourne: «I danni fatti dalle democrazie occidentali a se stesse sono maggiori di quelli causati dai loro nemici. Le automutilazioni sono in aumento nelle società libere. Ma è un’automutilazione che è anche politica, morale, culturale ed economica». La recente dichiarazione dell’arcivescovo di Canterbury sulla sharia islamica ne dà la riconferma. Ma che si parli di Islam o di Cina, il problema è lo stesso. Si è fraintesa la libertà e si è lasciato che manie religiose o dispotismi millenari ne abusassero. «Con tali ritirate - aggiunge Selbourne -, molte per viltà morale, è arrivata la perdita dell’identità e del senso della nazione». Parole di buon senso che a Firenze come a Essen o a Lione la maggioranza inizia a sentire vere. Ma non era facile credere che la situazione fosse sentita così disperante pure in Gran Bretagna.
Eppure è questo un sintomo importate che conferma come ovunque in Europa i fini della politica, dell’economia e della morale siano rimasti indietro, estranei a quanto si inizia ovunque a pensare. La globalizzazione sta finendo nelle anime prima ancora che nei mercati bancari in liquefazione. Le sperequazioni tra ricchi di patrimoni, sempre più ricchi, e poveri di reddito, sempre più poveri, hanno persuaso i popoli (in Germania o in Italia, cambia poco), che l’euro li ha rovinati. E il fatto che i cinesi e i musulmani stiano usando le nostre libertà per togliercele, e imporre i loro dispotismi, risulta non meno palese.
Un mondo è finito. E se la sinistra è sempre più perniciosa per come applica i suoi statalismi, anche la destra deve cambiare in Italia e in Europa. Non può più assecondare la globalizzazione e deve mantenersi certo non statalista, ma deve al contempo, col comunitarismo, la sussidiarietà, il mutualismo, proteggere la fraternità economica e il pubblico diritto.

E bisogna farlo in fretta perché vale anche per noi la citazione di Cromwell: «Consigli deboli e azioni deboli mandano tutto in rovina».

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