Controcorrente

Parità di stipendio uomo-donna. L'Italia batte Francia e Germania

Si straparla di gender, ma in Italia le donne guadagnano il 10% in meno degli uomini. E, sorpresa: in Germania e Francia stanno peggio

Parità di stipendio uomo-donna. L'Italia batte Francia e Germania

Soldi, soldi. L'uguaglianza di stipendio tra uomini e donne è la frontiera più avanzata della parità, quella più tangibile e misurabile: lo si fa a ogni fine mese. «Viva la differenza!», esclamavano le femministe d'antan. Abbasso l'omologazione, lotta alla discriminazione, avanti con l'identità femminile, il corpo che è mio, la rivendicazione della diversità. I conflitti arricchiscono, le vedute divergenti completano, il lato emozionale s'integra con quello razionale e magari prevale. Una questione di diritti e al tempo stesso un modo per affermare una novità culturale. Sembra una bizzarria, ora, che in nome della diversità il salario assurga a simbolo di uguaglianza, traguardo da raggiungere per sancire la parità di genere.

L'Europa a 28, che reclama (e a volte inventa) diritti per tutti e investe molti quattrini per rimescolare le definizioni della sessualità, si dichiara inflessibile con gli Stati che non equiparano i compensi. Ne ha fatto una bandiera. Il suo ufficio statistico, Eurostat, ha una sezione ampia e sempre aggiornata per monitorare il «gender gap» nei Paesi membri. Se il salario è la misura della scalata al successo, e non solo professionale, l'uguaglianza delle buste paga è il bersaglio grosso delle pari opportunità.

Stessi stipendi per maschi e femmine: qualche settimana fa la notizia che Apple è riuscita a raggiungere l'uniformità retributiva ha fatto il giro del mondo. L'obiettivo dell'azienda più famosa della Silicon Valley era già stato raggiunto da altri protagonisti della digital economy come Microsoft, Amazon, Facebook e Paypal; la Mela morsicata tuttavia fa più rumore. In realtà a Cupertino rimangono profonde differenze nella struttura del personale: due dipendenti su tre sono maschi e quattro su cinque sono bianchi. Dettagli.

Ma appena ti allontani dalla terra promessa californiana l'uguaglianza delle paghe svanisce. Anche in Europa. Il «gender pay gap» rilevato da Eurostat nel 2016 è pari a 16,1 punti nella media continentale: significa che se un lavoratore ha uno stipendio di 1.000 euro, una lavoratrice ne riceve 839. La differenza è più marcata (16,5) nell'area dell'euro rispetto ai Paesi che hanno conservato la propria moneta. Significa che la flessibilità legata alle vecchie valute funziona ancora.

L'Europa dunque è matrigna con le donne che lavorano. Il record della discriminazione salariale di genere spetta all'Estonia con uno scarto di 28,3 punti. Questa volta però l'Italia non è una Cenerentola. Nella nostra penisola la difformità precipita a soli 6,5 punti. Siamo il terzo Paese più virtuoso dei 28. E considerato che le nazioni che ci precedono sono Slovenia (appena 2,9) e Malta (4,5), siamo i primi tra le economie più sviluppate.

LE FORBICI

Tutti gli altri Paesi più ricchi presentano forbici più ampie nelle buste paga. In generale, nell'Europa occidentale l'indicatore del gap salariale si colloca tra 15 e 20 punti. Medioalto. La Francia è a quota 15,3, il Regno Unito a 18,3, la Spagna a 18,8. Soltanto in 6 Paesi dei 28 esso scende sotto i 10. E in coda alla classifica si situa la «virtuosa» Germania assieme ai satelliti: Slovacchia, Austria, Repubblica Ceca. In questo caso i tedeschi non sono certo «uber alles», meglio degli altri. La Germania, spesso portata a esempio per la struttura occupazionale, è un pessimo modello quanto a parità di trattamento economico: una donna guadagna oltre il 20 per cento meno di un uomo. Le italiane sono pure più stakanoviste delle tedesche. Da noi il 42,1 per cento delle occupate con 2 figli lavora part-time, mentre in Germania la percentuale è ben più elevata: 74,6.

La maggiore permanenza al lavoro in caso di maternità è uno degli elementi che contribuiscono a spiegare la scarsa discrepanza salariale italiana. Il ricorso più elevato al part-time avviene in Olanda, dove oltre metà delle donne (53,6 per cento) ha un orario ridotto anche senza figli; la quota sale progressivamente fino all'87,3 per cento fra le madri di tre figli.

Eurostat fotografa però anche un rovescio della medaglia: riguarda la tendenza registrata in Italia negli ultimi dieci anni. In Francia il «gender pay gap» è stabile, in Spagna ha avuto un andamento altalenante con salite e discese, in Germania e Gran Bretagna la forbice si sta progressivamente riducendo. Nel Paese di Angela Merkel nel 2006 la differenza si era collocata a 22,7 punti, superiore dell'1,1 per cento rispetto all'ultima rilevazione, e tra i sudditi della regina Elisabetta aveva addirittura toccato i 24,3 punti (+6).

GAMBERI IN SALSA ITALIANA

L'Italia viceversa ha fatto segnare un leggero ma costante peggioramento: l'indicatore era pari a 4,4 nel 2006, 5,3 nel 2010 e appunto 6,5 nella campionatura più recente. Si attendono lagnanze e proteste da Laura Boldrini e altri paladini dell'uguaglianza a qualsiasi costo. Ma un altro parametro riposiziona il Belpaese tra le nazioni che fanno progressi. L'indice generale della disparità di genere elaborato da JobPricing per il 2015 colloca l'Italia al 41° posto su 145 nazioni monitorate. Nel 2014 ci eravamo piazzati 69esimi: un bel balzo in avanti. Secondo le analisi di JobPricing, società specializzata nell'analisi degli stipendi, l'Italia colma circa tre quarti delle differenze di genere di qualsiasi tipo: le opportunità economiche ma anche il grado di istruzione, la salute e le possibilità di curarsi, la presenza in politica.

Quanti chiaroscuri. Paradossalmente nelle economie più evolute le differenze sono più marcate. Come si spiega? I fattori in gioco sono parecchi. Da noi il numero di donne lavoratrici è ancora molto inferiore rispetto a quello degli uomini: secondo l'Istat nel primo trimestre 2016 il tasso medio di occupazione è fermo al 56,3 per cento, ma la manodopera maschile è al 65,3 mentre quella femminile scende al 47,3. Le italiane che lavorano sono ancora relativamente poche, specializzate, istruite. Una presenza abbondante di donne occupate significa che molte di loro devono accettare mansioni poco qualificate e perciò mal pagate come nel settore dei servizi alla persona (colf, badanti, eccetera).

I PREGIUDIZI

È chiaro che molti impieghi restano prerogativa maschile perché richiedono qualità fisiche che le donne non hanno. Ma resistono anche pregiudizi di tipo culturale: si preferiscono uomini per evitare i costi legati alle maternità; le donne sono meno portate a contrattare le paghe con i capi del personale e comunque, nella grande maggioranza dei casi, il loro rappresenta il secondo stipendio di una famiglia e perciò, nell'economia domestica, sono più propense a non farsi il sangue cattivo se le mansioni o l'assegno non raggiungono i livelli sperati.

Ma il paradosso si ripropone. Oggi i Paesi con il mercato del lavoro più evoluto presentano un «gender pay gap» più marcato rispetto agli altri. Evoluzione e discriminazione. La «virtù» italiana di essere tra le nazioni meno discriminanti è in realtà un segnale di appiattimento, non di parità raggiunta: le donne che lavorano sono poche e in gran parte nella pubblica amministrazione (scuole, università, uffici) dove si premia il merito soltanto per le posizioni di vertice e gli stipendi sono livellati più che nel settore privato. E un altro paradosso viene messo in luce da una ricerca del Women's International Networking: le donne manager vorrebbero meno lavoro e più tempo per se stesse. Lasciando però inalterata la busta paga. Da questo punto di vista l'uguaglianza con gli uomini è già acquisita.

In Italia il peso del settore pubblico nell'appiattire la differenza retributiva di genere è determinante. Il 35 per cento delle lavoratrici opera nel settore pubblico contro il 24 per cento della forza lavoro maschile: il blocco dei salari ha congelato la situazione del 2010, anno in cui fu introdotto. Ma allo stesso tempo il differenziale complessivo tende ad aumentare, contrariamente a ciò che avviene nel resto d'Europa. La spiegazione viene da una ricerca di due studiose dell'Università di Torino, Daniela Piazzalunga e Maria Laura Di Tommaso: è aumentata l'occupazione nei servizi alla persona, ambito prevalentemente femminile con poca qualificazione e paghe basse, inoltre con la crisi le donne hanno percepito, nel privato, un salario d'ingresso sempre più basso.

L'aumento dell'occupazione femminile e del precariato lavorativo hanno fatto salire (di poco) il gap salariale di genere, che rimane comunque basso rispetto alle maggiori economie europee. C'è da andarne fieri?

Commenti