Cultura e Spettacoli

Gli indiani ringraziano John Ford: ricchi e felici con i suoi capolavori

«Noi Navajos abbiamo cambiato vita dopo che qui fu girato “Ombre rosse”»

Roberta Pasero

da Monument Valley

È notte di luna piena alla Monument Valley e al calar della sera si allungano le ombre rosse sulla terra infuocata d’arancio. Le pietre monolitiche s’illuminano dei raggi di luna: diventano ombre d’argento, poi ombre blu, poi nere, il silenzio si fa più forte e tutto si trasforma in batticuore. Ma questo non è un film. Questa non è Hollywood, anche se per anni, tanto tempo fa, Hollywood qui ha raccontato i suoi sogni più belli, questa è la Monument Valley, è la Navajo Land. Questa è la terra delle ombre lunghe attraversata dal confine di due Stati, Utah e Arizona, giusto a ovest della frontiera tra Colorado e New Mexico, «dove lo spazio è abbastanza e il tempo è abbastanza», come usano dire gli indiani nativi e dove le tre sorelle, il re sul trono, la roccia dell’aquila, la proboscide dell’elefante, la diligenza e tutte le altre rocce di sabbia indurita dal tempo ad ogni sguardo assomigliano sempre a qualcosa, a qualcuno, ad altro.
«Yà àt èèh!», welcome, benvenuta. Ha la pelle bruciata dal sole e gli occhi neri nascosti dal cappello di pelle Ashley Echohawk, una delle guide indiane che conduce i visitatori tra le pieghe del deserto, che narra i segreti di una terra per milioni di anni abbandonata al suo destino prima che gli indiani Anasazi e i Navajo le dessero vita e che il cinema, soprattutto, le facesse fare il giro del mondo. «La fortuna della Monument Valley cominciò negli anni Venti, cominciò con i Goulding, Harry, un commerciante di pecore del Colorado, e la sua giovane moglie Leone, detta Mike», racconta Echohawk arrotolando le foglie di tabacco. «Furono i primi bianchi ad installarsi qui e a fare piccoli commerci con gli indiani: loro ci procuravano farina e riso per non morire di fame e noi in cambio pagavamo con i tappeti e i gioielli d’argento e turchesi, come quelli che ancora adesso fanno le nostre donne. Vede laggiù quella costruzione di mattoni rossi? Era il loro trading post, quello che oggi è diventato il museo di questa vallata, la nostra memoria storica».
Ma vennero gli anni della Grande Depressione e gli affari dopo qualche tempo non bastarono più per vivere anche in una terra dove non c’erano troppe distrazioni, così Harry Goulding ebbe un’idea: cosa c’era di meglio come scenografia di quelle montagne rosse che aveva imparato a conoscere roccia per roccia? «Così un giorno del 1938 partì per Hollywood per tentare l'ultima carta», ricorda il nativo americano navajo. «Si presentò agli studios, domandò di Mr. Ford, di John Ford, ma il regista non c’era. Non si perse d’animo, ma lo attese per tre giorni e tre notti davanti al suo ufficio e quando Ford finalmente arrivò Goulding gli mostrò alcune foto della Monument Valley. Per il regista fu un colpo di fulmine, quello era il posto che aveva sempre cercato. Così tre giorni dopo arrivarono cento persone della troupe e il mese successivo stava già girando proprio qui tra queste montagne il suo capolavoro Ombre rosse».
Indica il John Ford Point, ormai segnato anche sulle cartine stradali, dove il regista amava ritirarsi in solitudine per studiare le inquadrature, per rivedere il copione, per immaginare il percorso di indiani, fuorilegge e diligenze in un set che non aveva certo bisogno di effetti speciali. Ombre rosse fu la prima pellicola sonora di una lunga interminabile serie girata qui (la prima in assoluto fu il film muto del 1925 The Vanishing American di George B. Seitz), e grazie anche alla Monument Valley vinse due Oscar e John Wayne venne acclamato divo. E John Ford decise di girare qui nel corso degli anni altri sei film: Sfida infernale, Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord-Ovest, La carovana dei mormoni, Rio Bravo, I dannati e gli eroi, Il grande sentiero.
Inquadrature che rivivono nella Film Room del museo, un tempo utilizzata dalle troupe per collocare pellicole, macchine da presa e tutto quanto serviva per girare e ora dedicata alle memorabilia cinematografiche, dalla sedia da regista di John Ford ai ciak, dai poster agli oggetti immortalati in decine e decine di film.
«Da allora la nostra vita qui alla Monument Valley si trasformò» spiega Ashley Echohawk. «Il cinema ci aveva portato la ricchezza, ci fece cambiare vita: molti indiani cominciarono a fare le comparse nei film e i nostri amici Goulding investirono i guadagni costruendo il general store, il motel, la pompa di benzina, la scuola, il ristorante, insomma una vera e propria cittadina che ha permesso a noi Navajos di sopravvivere e di lavorare nella nostra terra e che ancora oggi ci consente di vivere dignitosamente».
Non una città di cartapesta, costruita per esigenze di copione, ma un vera e propria cittadella fatta di costruzioni rosse come i pinnacoli delle rocce monolitiche che l’avvolgono, che senza il cinema non sarebbe mai esistita. Perché, come diceva John Ford, raccontando come mai era rimasto folgorato dalla Monument Valley, «l’attore protagonista di tutti i miei film western che ho girato qui, la vera star, è stata la terra, nient’altro che la terra».

La terra delle lunghe ombre rosse.

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