Gli inglesi stregati dai ravioli

Roberta Corradin

Se noi ci lamentiamo spesso della nostra immagine all'estero (peraltro, per raddrizzarla e renderla coerente a quanto accade in patria, basta scegliere con oculatezza da chi farsi rappresentare fuori, come ha fatto di recente Identità Golose a Parigi, sdoganando i giovani, da Baldassarre a Romito), cosa dovrebbero dire allora gli inglesi, spernacchiati dopo secoli di Christmas pudding e tartine di Marmite? A parte l'élite al corrente dell'esistenza di Heston Blumenthal, il grosso della popolazione mondiale ha inquadrato i britannici quando va bene nell'afternoon tea, quando va male nel fish & chips, e se va malissimo, nel porridge per colazione.
«E pur si muove!» obietterebbe il Galileo del caso. Obiettiamo anche noi, e obiettano i dieci chef venuti a Londra per una impegnativa kermesse di alta cucina chiamata Stravaganza Mediterranea, con un grande assente mediterraneo però: l'Italia. Andoni Luis Aduriz del Mugaritz di Renteria, Rene Redzepi del Noma di Copenaghen, Christophe Felder ex chef pasticcere del Crillon di Parigi, Oriol Balaguer pasticcere e cioccolatiere a Barcellona, Albert Adrià del Bulli a Roses, l'argentino Mauro Colagreco del Mirazur di Mentone, Claude Bosi dell'Hibiscus a Ludlow, i fratelli Pourcell di Montpellier, il cioccolatiere Enric Rovira di Castellbell I El Vilar, oltre a Heston Blumenthal - solo chef inglese intervenuto - hanno cucinato in 36 ore (due pranzi, una cena e un tè pomeridiano) un totale di portate di cui abbiamo perso il conto esatto ma che veleggiava tra l'ottantina e il centinaio.
Ora, non è che per mangiare bene a Londra uno sia costretto a fare il giornalista gastronomico e aspettare che lo invitino a cotanta manifestazione. Prova ne sia che tra gli chef intervenuti, molti hanno approfittato della sola serata libera per andare in esplorazione della scena londinese. Senza stranirsi se il ristorante di qualità a Londra vive spesso non autonomamente, e non tanto all'ombra di un hotel coi lustrini, quanto in un multilocale di concezione a prima vista giovanilistica: da Sketch, avamposto di Pierre Gagnaire affidato alle abili mani di Pascal Sanchez, si sale al primo piano per la cena gourmet, ma di sotto, a scelta, si balla, si ascolta musica, si mangia una cucina più facile, ci si trastulla in un privé dagli arredi di grande originalità. Da W'Sens, aperto dai fratelli Pourcell in Waterloo Place, il ristorante si divide su due piani e per chi vuole una cosa meno impegnativa il bravissimo barman, un insospettabile ex avvocato brasiliano, mixa coktail signature e serve un mini menu di tapas studiato ad hoc dai due gemelli titolari, una cosa garbata per far credere al proprio stomaco di avere cenato, se pur in porzioni minime, grazie all'avvenuta soddisfazione delle proprie papille - e senza simultaneo debilitamento dell'estratto conto, evento che a Londra pare endemico (ma tutti i grandi offrono lunch menu ben composti e non proibitivi).
E allo scugnizzo locale Jamie Oliver va riconosciuto che, con tutta la sua mediaticità, ha reso appetibile tanto la cucina quanto la professione del cuoco. anche se nel suo Fifteen la cucina italiana è un po' banalizzata, e anche se Jamie, con tutto l'affetto, fa un po' ridere quando spiega al New York Times come cucinare il risotto (colpa anche del New York Times che con tutti gli aventi titolo, va a chiederlo a lui). Ottimo l'indiano Zaika, una stella Michelin, con lo chef Sanjay Dwivedi che capovolge un'ottica che quando la vediamo applicata da Pascal Barbot a Parigi non facciamo una piega: suggestioni di viaggio, globalizzazione positiva. La fa Sanjay, innovando la cucina indiana con olio extravergine di oliva e portando come suggestione di viaggio il foie gras, e c'è chi storce il naso. Com'è, il diritto di ricercare nuove vie è a senso unico da ovest a est?
A Londra, bella scoperta, va fortissima l'Italia. Questo sì che è un fatto su cui riflettere: la Francia va forte esportando grandi nomi: Gagnaire, i Pourcell, Robuchon, e giovani come Claude Bosi che progetta il trasferimento da Ludlow a Londra. L'Italia invece, va forte con nomi che in patria sbiadiscono: qui, Carluccio e Locatelli sono principi e re, depositari della verità. Niente grandi nomi ma buon rapporto qualità prezzo nel nuovissimo Via Condotti e nel collaudato Latium, dove lo chef Maurizio Morelli riscuote successi con il suo menu di soli ravioli, dall'antipasto al dessert.
Che i parametri gastronomici londinesi stiano lievitando, lo dimostra anche il successo di Sudi Pigott, simpatica e gaudente (lei si dice epicurea nonché cuoca avventurosa) autrice di How to be a better foodie (come essere un goloso migliore), Quadrille Publishing Limited, www.betterfoodie.com. Illuminante, e divertente per il tono leggero, mai cattedratico, il senso del libro si può condensare in un paragrafo del capitolo sette, intitolato: «Perché il goloso migliore è contento di pagare di più», dove si spiega la differenza tra diverse varietà e qualità dello stesso ingrediente (riso, aceto balsamico, etc). A noi, con quel che costa già così la città, l'idea di pagare ancora di più ci fa venire un coccolone, ma va pur riconosciuto che, ormai anche gastronomicamente, Londra val bene le lunghe, estenuanti code al check-in, tutti in fila con lip-stick e dentifrici in bella vista, le brache cascanti senza cintura, i calzini nuovi che ora si tolgono anche le scarpe.

Che pazienza.

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