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La lezione dello sport: fidiamoci dei giovani

Lo sport ci mette seduti all'ultimo banco di scuola e ci fa una lezione: il futuro c'è, basta costruirselo

La lezione dello sport: fidiamoci dei giovani

Gianluigi Quinzi è il bello che deve ancora venire. Si butta per terra, piange, si alza, esulta. È la nuova Italia. Vince Wimbledon giovani e racconta a se stessa la storia di una generazione che non è per nulla perduta, perché deve ancora cominciare. Lo sport ci mette seduti all'ultimo banco di scuola e ci fa una lezione: il futuro c'è, basta costruirselo. Destra, sinistra, punto. Fa correre gli avversari per costruirsi il successo. Quinzi ha 17 anni e s'è preso il torneo di tennis più importante del mondo. L'ultima volta che era accaduto era il 1987 e prima di allora nessun italiano aveva trionfato sull'erba della regina d'Inghilterra. Qui non parliamo di un campione, ma di un ragazzo che sta crescendo per diventarlo. Ecco la lezione: credere nei ragazzi senza farli sentire dei panda. Perché questa è solo l'immagine che abbiamo noi di loro. Ci siamo convinti di avere figli senza idee e senza destino, seduti sulla riva di un fiume ad aspettare qualcosa che non arriverà. Ci siamo ammalati della nostalgia di noi stessi, certi che il passato sia meglio del domani, convinti di aver cresciuto un gruppo di ebeti con poche risorse e viziati. Abbiamo disegnato addosso ai nostri ragazzi l'abito dei falliti a prescindere. Basta guardare come il cinema racconta i ventenni: l'archetipo del fannullone inebetito dalla tecnologia, incapace di sfangarla, poco volenteroso, non studioso, apatico, inadeguato, una specie di nulla mischiato col niente. Poi arriva Gianluigi Quinzi e scarica in campo una palla a duecento chilometri orari: fancazzista a chi? Apatico a chi? La verità è che abbiamo figli e fratelli migliori. In una settimana abbiamo visto prima Marten Gasparini, che a 16 anni è stato scelto per giocare a baseball in America, e ora ci prendiamo il campione di Wimbledon juniores a 17 anni. Prima c'era stata l'Under 21 di calcio in finale all'Europeo. Non è un caso. Ci sono. Ci siamo. L'Italia può contare su un gruppo di ragazzi che non conosce per pregiudizio, ma che è pronto a risollevarla. Coi risultati si prendono lo spazio che gli è stato negato. Perché siamo sempre uguali. Quelli che al bar dicono: ci vorrebbero più giovani, sono gli stessi che nei loro uffici, nelle loro aziende, nei loro ristoranti chiudono la porta in faccia a quei giovani.
Wimbledon ci insegna a fidarci di più della generazione Quinzi. Ne fanno parte i ragazzi che disegnano e programmano le app per gli smartphone senza neanche aver finito il liceo, oppure i geni delle università che vengono chiamati dai principali atenei del mondo per fare ricerca, oppure quelli che credono nell'impresa anche se sono under 25 e ci provano. Esiste un Paese migliore a cui spesso non è ancora cresciuta la barba. Parla italiano, si sente italiano, vive nel mondo. Hanno ironizzato sull'esultanza di Quinzi dopo un punto fatto: «vamos», invece di «andiamo». Perché a 17 anni si può essere nati a Cittadella, cresciuti a Porto San Giorgio nelle Marche e allenarsi tra l'Italia e l'Argentina perché hai scelto l'allenatore che viene da lì. Non significa essere meno italiano, quanto essere un italiano diverso. Nuovo. I ragazzi che si vogliono prendere il domani non si fermano. Non hanno paura di giocarsela, non si sentono figli di un Dio e di un Paese inferiore. Quello lo pensano gli altri, quelli convinti che il meglio sia già venuto. Quinzi e i suoi fratelli d'Italia no: sono il futuro, sanno di esserlo, adesso hanno deciso di sbattercelo in faccia con tutta la forza che hanno.

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