Elezioni Regionali 2023

Pd, batosta senza fine: ora temono il flop anche alle primarie

L'incubo in cui il Partito Democratico era piombato lo scorso 25 settembre (dove, paradossalmente, andò meglio) non è assolutamente terminato: tra meno di due settimane sarà complicato raggiungere quota 500mila ai gazebo

Pd, batosta senza fine: ora temono il flop anche alle primarie

Nemmeno il tempo di tentare di ridestarsi dalla batosta del 25 settembre 2022 che il Partito Democratico è costretto a subire un'altra pesantissima scoppola in un confronto elettorale. In un colpo solo, infatti, il Pd non solo si è fatto strappare un'altra Regione che amministrava (in questo caso da dieci anni), ma ha anche perso ulteriore consenso rispetto a quello (scarso) che aveva ottenuto quasi quattro mesi fa alle politiche. Oltre al Lazio perso, però, i dem devono fare i conti anche con una Lombardia che rimane solidamente una roccaforte di centrodestra da quasi 30 anni e dove non riescono minimamente, non tanto a vincere, ma quanto a insidiare e a competere per un successo. E, tra meno di due settimane, si terranno le primarie aperte: il serio rischio di un flop interno è dietro l'angolo. Proprio adesso che ricominceranno le faide interne.

Debacle senza fine

I numeri, in termini assoluti, danno pesantemente torto al Pd, che può solo "accontentarsi" di avere fatto meno peggio delle altre opposizioni. Partiamo dalla Regione Lazio. Il 4 marzo 2018 Nicola Zingaretti era stato riconfermato governatore con il 32,9%: 1.018.736 di voti in termini assoluti. La coalizione che lo sosteneva arrivò fino al 34,1%, ma il Partito Democratico raggiunse solo il 21,2% (539.131 di voti). Il paragone con le Regionali laziali di quest'anno è impietoso: Alessio D'Amato è riuscito sì a raccogliere soltanto il 33,7% ma, stante il profondo calo dell'astensione, è riuscito a convincere appena 570mila laziali circa: la metà rispetto a cinque anni fa.

Si dirà: è impossibile confrontare in maniera attendibile un voto amministrativo che è arrivato dopo cinque anni durante i quali è successo di tutto e di più, politicamente e istituzionalmente parlando: sia a livello nazionale sia a livello locale. Con in più un candidato presidente che era diverso dal 2018, visto che Zingaretti – non potendo più ricandidarsi per legge – è volato in Parlamento, 'costringendo' così il suo assessore alla Sanità a subire una mazzata alle urne da parte di Rocca. È altrettanto vero, tuttavia, che anche se si prendesse in considerazione il flop alle elezioni del rinnovo di Camera e Senato di inizio autunno scorso, le rivelazioni numeriche provenienti dal fresco scrutinio nei seggi resterebbe sconfortante: il Partito Democratico riuscì a convincere il 19,3% dei cittadini laziali (523.083 di persone); nelle scorse ore è arrivato al 20,2%, per un totale di 305mila voti assoluti, facendo quindi segnare un -215mila consensi rispetto alla sberla già forte di settembre 2022.

Non c'è storia in Lombardia

In Lombardia per la sinistra è un vero è proprio bagno di sangue: Giorgio Gori, sempre il 4 marzo 2018, aveva preso come candidato presidente di Regione per il centrosinistra il 29,0% (1.633.373 di voti) contro il 33,7% di Pierfrancesco Majorino, ma il sindaco di Bergamo non aveva all'epoca nella propria coalizione né il Movimento 5 Stelle né il partito di sinistra Liberi e Uguali (adesso invece presente con l'affine Alleanza di Verdi e Sinistra). La coalizione si ferma al 32% contro il 27% di cinque anni fa, ma il Partito Democratico scende dall'1.008.560 di voti ai 630mila circa ottenuto nelle scorse ore. Il 25 settembre il movimento politico guidato da Enrico Letta poteva "vantare" in Lombardia di 961.894 voti: pur nella debacle, aveva quindi comunque preso 300mila voti abbondanti in più rispetto ad adesso.

Non sono quindi bastate le barricate in Parlamento per le polemiche riguardanti il 41 bis ad Alfredo Cospito per riuscire a ribaltare in Lazio e in Lombardia una situazione che era già piuttosto chiara alla vigilia del voto. Così come non sono bastate le strumentalizzazioni su un presunto isolamento della Meloni in Europa; per non parlare delle incursioni moralistiche degli artisti di sinistra contro il governo sul palco di Sanremo. Al futuro segretario nazionale del Partito Democratico toccherà il duro lavoro di ridare identità a un movimento che ha ormai perso la propria essenza politica, tramite proposte alternative valide e una seria opposizione parlamentare e territoriale. Un segretario che, domenica 26 febbraio, dovrà augurarsi di raggiungere almeno quota 500mila di simpatizzanti ai gazebo per evitare un ulteriore flop totale. Oggi, però, l'umore di quel potenziale mezzo milione di persone è nero.

E, almeno per questa volta (si spera), il tema ossessivo del rischio di un ritorno del fascismo non c'entra niente con quel colore.

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