Sport

Il destino impossibile di chi si sente sicuro soltanto a 300 all'ora

Per comprendere il «paradosso Schumacher» è sufficiente un veloce rewind degli ultimi anni, cominciando da quella sera brasiliana del 2006, quando Michael a San Paolo smise il casco dopo un'ultima indimenticata gara vissuta sempre all'attacco. Nel garage Ferrari aveva indossato jeans, t-shirt e giubbotto di pelle, mentre la moglie Corinna lo guardava con il sorriso dolce ma assente di sempre. I jeans e il giubbotto lo rendevano più giovane, sarebbero stati la sua tuta da lì in poi. La tuta per affrontare la lunga gara di una vita normale. E però pareva infastidito Michael, come gli stessero scomodi, e poi aveva uno sguardo frastornato e triste. Noi tutti pensammo fosse colpa della calca e della voglia di restare in Ferrari, di correre ancora visto che a 37 anni si sentiva al top e invece gli era toccato nolente di far posto al giovane Kimi Raikkonen. Visto quanto successo poi, visto quanto accaduto domenica mattina, era forse lo sguardo confuso e malinconico di un uomo che si sentiva inadeguato a una nuova vita mentre lasciava da parte in un box l'armatura che l'aveva reso invincibile e indistruttibile in un mondo pericoloso ma codificato e in fondo prevedibile come la F1.
Il «paradosso Schumi» nei mesi e anni successivi ha faticato a capire il mondo normale tanto quanto noi tutti a comprendere lui e le sue scorribande rischiose. Tifosi, colleghi, persino l'amico e padre in pista Jean Todt, tutti criticarono la sua decisione a sorpresa di tornare in pista. In moto. Superbike tedesca. Due ruote e pieghe e impennate sull'orlo dei quarant'anni che dopo una vita di corsa sapevano di follia e di non voglia di restare a casa e persino di trascuratezza verso i figli piccoli, la moglie sempre sorridente, la vita normale. Credevamo fosse la tossica dipendenza dal rischio e dal bisogno di adrenalina, era invece l'esatto contrario: la voglia, la necessità di avvolgersi in ambienti a lui più familiari rispetto a quelli di una vita normale. Il bisogno di sicurezza alla sua maniera. Contesti capaci di avvolgerlo in quella sensazione perversa di rischio e controllo che gli sport estremi e le piste e i circuiti e i box e l'asfalto e i cordoli e le vie di fuga offrono a tutti gli atleti che per una vita hanno vissuto al limite. Contesti dove, da calcolatori quali sono, possono prevedere quasi tutto, dove l'imprevisto è codificato, dove lui uomo computer sapeva di sentirsi a proprio agio.
Il paradosso Schumi non si spaventò per l'incidente in moto a Cartagena, febbraio 2009, provando una superbike, decollo, volo, atterraggio, botta forte alla testa, svenimento, problemi alla colonna vertebrale. Smise con le moto solo perché per i postumi di quella botta gli sfuggì il ritorno in Ferrari al posto di Massa infortunato. Poi arrivò la chiamata Mercedes e la sfortunata seconda vita in F1. Tre anni costellati di brutti incidenti e di grandi insuccessi, ma con Michael sempre felice e sorridente in giro per il paddock. A casa sua. In fondo al sicuro.
Con mille milioni in tasca, una bella famiglia, il mondo ai suoi piedi, Schumi ha avuto difficoltà a restare in piedi soltanto camminando nella vita come noi pincopalla. Quasi l'esistenza normale, disorientandolo, lo spaventasse. E allora ha affrontato i sorpassi che gli infliggeva la quotidianità banale cimentandosi nel paracadutismo, nuotando fra le balene, cercando l'adrenalina che per lui era normalità assoluta e che sapeva domare. Per cui fa effetto in queste ore drammatiche sentirne dipingere l'esistenza solo come quella di un pazzo dedito agli sport assurdi. Quasi non si volesse vedere e ammettere neppure davanti ai bollettini terribili dell'ospedale di Grenoble, la vera verità: che al pilota Schumi non è successo assolutamente nulla. Tutto è accaduto all'uomo Michael, al marito Michael, soprattutto al padre Michael. Sciando con suo figlio di 14 anni. Come tutti noi.

Pieni di insicurezze e in balia del fottuto destino.

Commenti