Giro d'Italia

Gino d'Italia eterno secondo, per gli ebrei è il numero uno

Israele riconosce ufficialmente l'eroismo di Bartali: salvò centinaia di persone dai lager trasportando lasciapassare nascosti nella sua bici

Gino d'Italia eterno secondo, per gli ebrei è il numero uno

Sono proprio orgoglioso: un mio caro amico, mio e di tutti quelli che seguono il ciclismo, ha vinto la corsa della vita, anche se è morto da un po'. Il suo nome non sta più scritto soltanto negli albi d'oro del Giro d'Italia e del Tour de France, ma viene inciso direttamente nella pietra viva della storia, la storia più alta e più nobile degli uomini giusti. A Gerusalemme sono pronti a preparargli il posto con tutti i più sacri onori: la sua memoria brillerà come esempio, con il titolo di «Giusto tra le nazioni», nella lista santa dello Yad Vashem, il «mausoleo» della Shoah. Se ne parlava da anni, sembrava quasi che fosse finito tutto nella polverosa soffitta del tempo, ma finalmente il riconoscimento arriva, guarda caso proprio nelle giornate dei campionati mondiali lungo le strade della sua Firenze.

Questo mio amico, amico molto più e molto prima di tanta gente che ne ha amato il talento sportivo e la stoffa umana, è Gino Bartali. Per noi del Giro, Gino d'Italia. Come già tutti hanno letto nei libri e visto nelle fiction, il campione brontolone aveva un cuore grande e una fede profonda. Nell'autunno del 1943, non esitò un attimo a raccogliere l'invito del vescovo fiorentino Elia Della Costa. Il cardinale gli proponeva corse in bicicletta molto particolari e molto rischiose: doveva infilare nel telaio documenti falsi e consegnarli agli ebrei braccati dai fascisti, salvandoli dalla deportazione. Per più di un anno, Gino pedalò a grande ritmo tra Firenze e Assisi, abbinando ai suoi allenamenti la missione suprema. Gli ebrei dell'epoca ne hanno sempre parlato come di un angelo salvatore, pronto a dare senza chiedere niente. Tra una spola e l'altra, Bartali nascose pure nelle sue cantine una famiglia intera, padre, madre e due figli. Proprio uno di questi ragazzi d'allora, Giorgio Goldenberg, non ha mai smesso di raccontare negli anni, assieme ad altri ebrei salvati, il ruolo e la generosità di Gino. E nessuno dimentica che ad un certo punto, nel luglio del '44, sugli strani allenamenti puntò gli occhi il famigerato Mario Carità, fondatore del reparto speciale nella repubblica di Salò, anche se grazie al cielo l'aguzzino non ebbe poi tempo per approfondire le indagini.

Gino uscì dalla guerra sano e salvo, avviandosi a rianimare con Coppi i depressi umori degli italiani. I nostri padri e i nostri nonni amano raccontare che Gino salvò persino l'Italia dalla rivoluzione bolscevica, vincendo un memorabile Tour, ma questo forse è attribuirgli un merito vagamente leggendario, benché i suoi trionfi fossero realmente serviti a seminare un poco di serenità e di spirito patriottico nell'esasperato clima di allora.
Non sono ingigantite, non sono romanzate, sono tutte perfettamente vere le pedalate contro i razzisti, da grande gregario degli ebrei. Lui che parlava molto e di tutto, della questione parlava sempre a fatica. Ricorda il figlio Andrea, il vero curatore amorevole della grande memoria: «Io ho sempre saputo, papà però si raccomandava di non dire niente a nessuno, perché ripeteva sempre che il bene si fa ma non si dice, e sfruttare le disgrazie degli altri per farsi belli è da vigliacchi...».

Tanti anni dopo, in un'altra vita, nella sua terza età, io e quelli del Giro l'abbiamo conosciuto e gli siamo diventati amici perché era proprio così. Noi non siamo ebrei, ma possiamo testimoniare ugualmente: Gino era un uomo magnifico. Un uomo semplice, sincero, diretto, anche irriverente, ma leale, generoso, buono. Il riconoscimento d'Israele arriva anche a sottrarlo da quella nostra tendenza un po' cialtrona di rinchiuderlo nel profilo di macchiettona nazional-popolare, quella stucchevole del Ginettaccio «iè tutto sbaiato tutto da rifare», quello che doveva svelarci ogni volta chi aveva dato la borraccia a chi, quello baciapile e bacchettone che doveva fare il contraltare all'altro rovinafamiglie in fuga con l'amante. Gino era molto di più e molto meglio. Andando a sedere nella suite celestiale dei Giusti, esce persino dalla cornice retorica e pietistica dell'eterno secondo, dell'umile spalla, del predestinato alla sconfitta, cioè di quel tipo d'uomo che i ruggenti yuppisti di tutte le epoche marchiano sprezzanti come perdenti. Gino, il nostro caro Gino d'Italia, è qui ancora vivo a dimostrarci che si può trionfare arrivando secondi, semplicemente seguendo convinti il proprio percorso, senza scorciatoie e deviazioni, verso un traguardo superiore.

C'è chi dice che ne salvò cinquecento, chi seicento, chi mille. Sinceramente, il numero conta poco. Ne avesse salvato uno solo, non cambierebbe nulla: a meritare il grato riconoscimento è la sensibilità che portò un campione così famoso a rischiare la vita per gli ultimi della terra. Grande Gino, a braccia alzate sul podio dell'umanità. Ora è Giusto per gli ebrei, ma conta soprattutto che fosse da sempre un Giusto per noi.

Commenti