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Ma i nostri soldati non sono morti invano

La trattativa coi talebani è un errore, ma non cancella le ragioni della guerra: Osama è morto, l'Afghanistan diverso

Soldati italiani dell'ISAF in Afghanistan
Soldati italiani dell'ISAF in Afghanistan

Quelle 53 bare avvolte da una bandiera italiana rientrate da Kabul in dodici anni non sono state inutili. Anche adesso che l'Occidente sta trattando coi talebani e quella domanda, a volte gridata e molto più spesso soffocata, viene fuori ancora una volta: ne è valsa la pena? Sì. Ripetiamocelo: sì. Ancora: sì. Il diritto di rispondere no ce l'hanno solo i genitori, le mogli, i mariti, i figli dei nostri militari e civili morti in Afghanistan in questi anni di guerra al terrore islamista. Gli altri, noi tutti, dobbiamo ringraziarli e basta.
Forse questa storia finirà con una ritirata mascherata da armistizio, ma per darci quella risposta dobbiamo tornare all'inizio. In Afghanistan ci siamo perché l'Occidente ha reagito alla dichiarazione di guerra di Osama Bin Laden e dei suoi sgherri. Ci siamo perché gli attacchi dell'11 settembre 2001 e i tremila morti che provocarono furono uno schiaffo non all'America, ma a noi tutti. Al nostro modo di vivere, al nostro modo di essere, alla nostra libertà, alla nostra democrazia. In Afghanistan ci siamo perché i talebani comandavano a Kabul e offrirono copertura, assistenza, supporto ad Al Qaida.

Non è stato inutile esserci. L'Italia, come molti altri Paesi, ha fatto il suo dovere. È stata dalla parte giusta. Con i buoni, contro i cattivi. Perché così è: nel 2001, quando la coalizione dell'Occidente cominciò la guerra al terrore, i talebani erano il regime peggiore del mondo. L'ha ricordato La Stampa ieri: le donne sospettate di adulterio venivano fucilate in pubblico allo stadio, le bambine scacciate da scuola o sfregiate con l'acido, i maschi costretti a studiare nelle scuole coraniche o reclutati con la forza. Era il buco nero del pianeta, lasciato sprofondare nel suo medioevo solo perché sembrava impossibile cacciare quel gruppo di fondamentalisti dalla loro terra. Tutti a ripetere che se l'Armata rossa, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, s'era dovuta arrendere ai mujaheddin, e se decenni prima lo stesso era toccato all'impero britannico, nessuno avrebbe mai potuto vincere una guerra in Afghanistan.

Forse, dopo 12 anni, neanche l'Occidente del nuovo millennio è riuscito a vincere. Conta i suoi morti: migliaia tra americani, inglesi, australiani, italiani, francesi. Ogni Paese piange i suoi, certo. È la conseguenza di ogni guerra, anche di quelle giuste come questa. Perché dal 2001 qualcosa è successo. È morto Bin Laden, per cominciare. Ecco: senza l'invasione, senza dodici anni di caccia ostinata, di ricerche, di blitz provati, Osama probabilmente non sarebbe stato eliminato. Era l'obiettivo principale. Solo questo vale il sacrificio dei militari: la mente e il mandante dell'11 settembre, degli attacchi di Atocha a Madrid, della metropolitana di Londra non c'è più. Ma anche l'Afghanistan non è quello del 2001. La missione non è stata compiuta e il finale è triste, trattare con un gruppo di estremisti islamofascisti è la negazione del principio che con i terroristi non si scende a patti. Sono anche sbagliati i tempi: la pace si firma prima di annunciare il ritiro, prima di mollare la presa, prima di dare l'idea della smobilitazione. Gli errori della diplomazia qui ci sono e sono molti. È un destino curioso, quasi beffardo, che all'indomani della notizia delle trattative sia morto il giornalista che ha rivelato al mondo il disastro che l'amministrazione Obama stava facendo a Kabul tre anni fa. Si chiamava Michael Hastings, intervistò il comandante delle forze Usa in Afghanistan, Stanley McChrystal che attaccò il presidente sulla strategia della guerra.

I negoziati che partiranno confermano che l'uscita dal conflitto è stata gestita male. Forse dopo la fine di queste trattative, Kabul tornerà a essere quel buco nero che era e tra vent'anni ci pentiremo di non aver finito il lavoro. È tutto vero, ma ogni conflitto deve concludersi con una pace. È la politica che prende il posto della forza. È il realismo che a un certo punto sgomita e scaccia l'idealismo. I militari che muoiono sono gli eroi. Quelli che per primi direbbero: sì, ne è valsa la pena, comunque.

Ci ricordano perché certe guerre vanno combattute indipendentemente da come finiranno.

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