Cultura e Spettacoli

Quando Craxi cercava Allende e sfidava i mitra

Nel 1973, a pochi giorni dalla morte del presidente, viaggiò nel Cile della dittatura per rendere omaggio alla tomba

Quando Craxi cercava Allende e sfidava i mitra

Per gentile concessione della Fondazione Craxi, pubblichiamo un appunto inedito di Bettino Craxi rinvenuto tra le carte conservate ad Hammamet e in via di catalogazione presso la Fondazione, a Roma. Nel documento, scritto nel dicembre 1998, Craxi ricorda il suo viaggio in Cile, insieme a una delegazione dell'Internazionale Socialista, tra la fine di settembre e i primi giorni dell'ottobre 1973, immediatamente dopo il golpe di Pinochet. Lo proponiamo ai lettori nel 40esimo dei fatti.

Di buon mattino eravamo partiti da Santiago e avevamo raggiunto Viña del Mar che è a un centinaio di chilometri dalla capitale. Eravamo un folto gruppo. Quando arrivammo al cimitero di Santa Ines alla periferia di Viña e dove Allende è sepolto nella tomba della famiglia Grove (i Grove sono i parenti della moglie di Allende) tutto pareva calmo, regolare. Le prime avvisaglie di quello che doveva succedere, si sono avute all'ingresso del cimitero, quando mi rivolsi all'impiegato dicendogli in spagnolo: «Siamo qui per visitare la tomba del presidente Allende». L'uomo, un giovane, mi guardò come sorpreso, poi abbassò gli occhi senza rispondere. Ho insistito più energicamente, alzando un poco la voce. E lui zitto. Faceva finta di riordinare certe sue carte e non osava alzare lo sguardo. Ho capito che aveva paura.
In quel momento arrivò un ragazzino, un bambino anzi, non avrà avuto più di cinque o sei anni, uno di quei bambini tragici e meravigliosi che si incontrano in tutti i paesi sottosviluppati e che si guadagnano la vita a far da guida agli stranieri davanti alle chiese o ai monumenti o ai bazar o appunto davanti ai cimiteri. Il bambino ci dice: «Vi insegno io dov'è la tomba del presidente». E così ci incamminiamo lungo un grande viale deserto. Era una giornata splendida e il cimitero di Santa Ines appariva quasi allegro nella luce limpida e fresca del mattino. Questa atmosfera idilliaca durò poco. Avremo fatto sì e no cinquanta passi che si parò davanti a noi un manipolo di «carabineros», faccia truce e mitra puntati. Io ero in fondo alla fila e sulle prime non mi resi ben conto di cosa stesse succedendo. Quando mi avvicinai udii chiaramente, sinistramente il «clic» della pallottola in canna. Era il più giovane dei soldati che, piantato a gambe larghe, puntava il mitra carico contro di noi. In spagnolo ci ordinò di andarcene. Qualcuno non aveva capito e fece l'atto di proseguire. «Un paso mas y tiro» fu la risposta del militare, la canna del mitra ormai a pochi centimetri da noi. Allora abbiamo deposto i fiori sulla ghiaia del viale, e siamo tornati verso l'uscita. Ho avuto paura? Forse. Ma più che paura era rabbia. Rabbia per il senso di impotenza, un senso di impotenza che mi accompagnò, devo dire, per tutto il tempo in cui sono rimasto in Cile.
Nell'atrio del cimitero trovammo altri soldati e altri mitra. Cominciarono a perquisirci e a sequestrare tutte le macchine fotografiche. L'operatore italiano della Rai si sedette su una tomba e cambiò, con straordinaria rapidità e senza farsi accorgere, il rullino. Poi mi venne vicino e mi disse: «Mi dà una sigaretta, onorevole?», e poi mi buttò il rullino nel giubbotto. Io mi apersi la camicia e feci girare il rullino sulla schiena. Tutto si svolse così velocemente che i «carabineros» non si accorsero di nulla. Negli uffici del cimitero rimanemmo due ore, sotto strettissima sorveglianza. Nemmeno la pipì ti lasciavano fare senza seguirti. Alla fine ci lasciarono andare.
All'uscita dal cimitero ci fu una scena che mi colpì profondamente. Il quartiere dove si affaccia il cimitero di Santa Ines è un quartiere pieno di vita, come può esserlo un quartiere popolare la mattina. Si vedevano, attraverso le porte aperte, gli uomini intenti al lavoro nelle officine, e le donne sulle porte delle case, e i ragazzi che giocavano. Bene. Tutti quanti sapevano o immaginavano quello che stava succedendo. Avevano visto il corteo delle macchine, avevano visto i militari, avevano visto i gipponi. Ma nessuno si era avvicinato. Non osavano neanche guardarci. Lo facevano solo con la coda dell'occhio stando ben attenti a non farsi vedere dai militari. A un certo punto, io ero già salito in macchina, vidi staccarsi da un portone una donna, una popolana sui quarantacinque anni. Mise la testa nel finestrino e disse tutto di un fiato: «Clemencia por los chilenos en sus Paises». Chiedete solidarietà per i cileni nei vostri Paesi. Poi si è girata ed è tornata di corsa in casa.
A Santiago vedevo paura e odio. I volti degli abitanti di Santiago erano pallidi di paura e di odio. E non solo nei quartieri bassi, ma anche nel Barrio Alto, nei quartieri ricchi, residenziali. Io non ho visto, come invece scrissero, che i quartieri bene erano imbandierati, allegri, in festa. No, non è vero. Anche fra i ricchi c'era paura e odio. Per ragioni diverse, ovviamente. Perché temevano che la «Junta» potesse essere rovesciata, perché temevano la vendetta dei figli, dei fratelli, dei compagni degli uomini di sinistra che erano stati massacrati e fucilati per le strade di Santiago e in tutto il Cile. Del resto la moglie di un senatore che era al confino all'isola di Dawson, o almeno si presumeva che fosse a Dawson, perché dal giorno del suo arresto non se ne sapeva più nulla, mi disse che fra le «poblaciones» circolavano volantini che dicevano: «Chi colpirà gli uomini di Unità Popolare subirà, prima o poi, vendetta spietata e senza appello». Perciò i cileni si guardavano tutti, l'un l'altro, con sospetto. Tra tutti i tragici aspetti di una guerra civile, questo è forse il più orribile. Non si può immaginare cosa sia una città, grande come Santiago alle sei e mezzo di sera quando il coprifuoco è fissato per le otto. È tutto un correre, un affannarsi, un fuggi fuggi generale. Vedi passare i pullman, i piccoli pullman zeppi di gente, con le persone a grappoli avvinghiate alle portiere. Sembrava di rivivere certe scene dell'Italia della guerra o dell'immediato dopoguerra.
E nessuno può immaginare, se non l'ha visto con i propri occhi, che cosa sia una città cinque minuti prima del coprifuoco. I pochi passanti che corrono disperatamente, le porte degli alberghi e degli uffici pubblici chiuse a metà, mentre già si sentono i passi delle pattuglie, mitra contro il cielo. Una atmosfera da incubo, allucinante. E poi la notte l'eco degli spari; le grida, i comandi secchi degli ufficiali. E all'alba cominciano a circolare le notizie dei morti che erano stati trovati nel fiume o nei prati della periferia. Proprio il giorno in cui arrivammo un giornalista mi raccontò di aver visto con i suoi occhi cinque cadaveri galleggiare sul Mapocho. Io stesso contai nei pochi giorni che sono stato in Cile trenta fucilazioni. E nel giorno in cui ripartimmo per Buenos Aires ne uccisero altri sedici.

E questi erano dati ufficiali forniti dalla «Junta» che tendeva ovviamente a minimizzare e mascherare la realtà.

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