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"Io e il mio cinema? Siamo bardi, a metà fra due mondi e tra finzione e realtà"

Il regista messicano che vive negli States parla del suo film autobiografico presto su Netflix

"Io e il mio cinema? Siamo bardi, a metà fra due mondi e tra finzione e realtà"

La California è diventata parte degli Stati Uniti dopo la guerra fra Messico e USA (1846 1848), a fronte di un rimborso di quindici milioni di dollari versato dal Governo americano e l'annullamento di un debito di poco più di tre milioni.

Alejandro González Iñárritu, quattro premi Oscar, nato a Città del Messico nel 1963, pur essendosi trasferito negli States negli anni Novanta dopo avere completato una scuola di cinema a Los Angeles, non ha mai dimenticato le proprie radici.

Bardo in spagnolo significa compromesso, uno stato di esistenza intermedio, a metà fra due mondi. Bardo è un immigrato, direbbero alcuni. Con tutte le ricchezze e i limiti che questa condizione porta con sé.

Il suo ultimo film, il cui titolo completo è Bardo, la Cronaca Falsa di Alcune Verità, è un viaggio autobiografico, psichedelico e surreale, all'interno delle memorie del regista. Conquiste, successi ma soprattutto ferite rimaste aperte, come il figlio perso un giorno dopo la nascita e la difficoltà nel venire accettato nel suo Paese d'adozione. Il primo lungometraggio interamente girato in Messico da Iñárritu, dai tempi di Amores Perros.

Dopo il debutto a settembre alla mostra del Cinema di Venezia, la pellicola di due ore e trentanove minuti è appena uscita in America e uscirà su Netflix il 16 dicembre. Abbiamo incontrato il regista durante la premiere di Los Angeles, all'AFI festival.

Per Lei questo a Hollywood è un debutto importante.

«Essere qui, nel mitico Chinese Theater, con il mio cast e la mia crew, è un vero privilegio. Un onore tornare in questa città che mi ha ospitato e protetto per ventuno anni. Ho portato con me anche la mia famiglia, è davvero bellissimo».

È quasi come una rimpatriata fra amici per lei?

«In effetti è vero, se mi guardo intorno vedo mia moglie, molti vecchi amici, gente con cui ho lavorato nel corso degli anni, persone con cui ho condiviso molto. Essere finalmente qua a mostrare il mio lavoro è stupendo. È proprio questo il motivo per cui uno come me fa i film: per connettersi con le persone».

Il suo protagonista, Silverio Gacho, nel film è famoso per le sue docu-fiction, a metà fra finzione e realtà. Perché ha scelto questo tipo approccio?

«Credo che sia connesso al fatto che quando arrivi alla mia età, ho cinquantanove anni, ti senti troppo giovane per morire ma anche abbastanza vecchio da sapere che la vita non durerà per sempre. Un momento in cui metti insieme quello che hai fatto e cerchi di dare un senso alle cose. La scelta della finzione deriva dal fatto che a me non interessa raccontare la mia storia esattamente come è stata e credo che a nessuno interessi sentirla. I fatti non contano perché sono sempre soggettivi. Ciò che conta per me è il carico emotivo che metto nelle cose. Volevo fare dell'introspezione per descrivere lo stato mentale di chi lascia un Paese ricco e bello come il mio, per andare in un altro luogo affascinante e complesso come gli States. L'unico modo per esprimere onestamente questa esperienza personale, per svelare ciò che la realtà spesso nasconde, era usare la finzione».

Come ha fatto dunque?

«L'obbiettivo era immedesimare il pubblico in qualcuno che, arrivato alla fine della propria vita, la sta valutando. Si tratta di un punto di vista radicale, l'ultima vera migrazione che tutti noi dobbiamo fare. Una delle poche in cui nessuno ci chiederà mai un passaporto. Volevo che lo spettatore provasse quelle sensazioni, in modo liquido, con riprese lunghe e montate in sequenze non necessariamente temporali. Dal punto di vista tecnico, abbiamo usato sempre lenti molto larghe, quasi grandangolari. Per preparare il set ci sono volute ore per ogni scena. È stato sicuramente il film più difficile che abbia mai realizzato. In ogni immagine infatti ci sono un'infinità di dettagli, tutti importanti, proprio come in un sogno».

Recentemente l'abbiamo sentita dire che il Messico è uno stato mentale per Lei, possiamo dire che Hollywood sia simile in questo senso?

«Esattamente, Hollywood è prima di tutto un concetto. Ognuno ha una sua idea di cosa sia questo posto. Se lo chiedi a me, io ancora non so cosa sia. È interessante scoprire che ogni persona che incontri, ha una sua idea di ciò che questo luogo rappresenti, creata nella propria mente. È proprio come il Bardo. Uno stato di esistenza intermedia fra realtà diverse. Un luogo in cui ognuno trova un suo spazio, un territorio che si può adattare alla propria storia, ai propri progetti, alle proprie necessità emozionali e alla propria fede. Per questo è così affascinante».

Siamo in un luogo sacro del cinema, chi sono i grandi registi che hanno influenzato il suo modo di lavorare?

«Billy Wilder, Orson Welles, prima di tutto, ma sono così tanti i grandissimi che sono passati per questo teatro che non saprei neanche scegliere, la lista sarebbe davvero lunga».

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