Cultura e Spettacoli

"Io musicista politico? Ora ho voglia di leggerezza"

Lo zar delle orchestre ha suonato per le vittime degli attacchi ceceni e la liberazione di Palmira dall'Isis. Adesso pensa all'operetta

"Io musicista politico? Ora ho voglia di leggerezza"

Nato a Mosca nel 1953, cresciuto nell'Ossezia del Nord e sbocciato a San Pietroburgo, il direttore d'orchestra Valery Gergiev è lo zar della musica. «I russi vogliono zar forti. Non siamo piccoli come Olanda o Svizzera attraversabili in auto in un giorno, per noi ci vuole un anno» osserva commentando l'opera Kovanchina.

E immediata scatta l'analogia con il suo essere uno e trino, perché del teatro Mariinskij di San Pietroburgo - dove opera dal 1988 - è direttore musicale, artistico e sovrintendente, despota assoluto e illuminato. È musicista-sciamano, potrebbe dirigere col solo sguardo, ma è anche abile manager e comunicatore. Sa dove e quando esserci. Nel 2018, al galà del suo festival Le Notti Bianche erano presenti i nomi chiave del Forum economico di San Pietroburgo, da Lagarde a Macron. Il battesimo del teatro Mariinskij II, il più importante progetto architettonico russo dall'era bolscevica, venne fatto coincidere con lo scoccare dei suoi 60 anni, attorno a una torta monumentale, Vladimir Putin e i cantanti Anna Netrebko e Placido Domingo cantavano Happy Birthday.

Ha costruito un impero che va dalla Russia alla Svizzera, dove è al timone del Festival di Verbier, a Monaco è direttore della Filarmonica, in passato ha avuto ruoli importanti a Londra e Rotterdam. Viaggia più di un pilota d'aereo, e spesso portandosi la compagnia del Mariinskij.

Oggi, 27 luglio, è atteso a Lugo, ospite del Ravenna Festival, alla testa dell'Orchestra del Teatro Mariinskij, il 29 sarà a Ravello, il 26 agosto tornerà in Italia per inaugurare Le Settimane musicali di Merano.

Il Ravenna Festival rappresenta la prima uscita del Marinskij in fase Covid?

«Proprio così. A San Pietroburgo, abbiamo riaperto il teatro il 20 giugno con un concerto per il personale medico, e proseguiamo a piccoli passi. Io ho già diretto a Monaco e a Ravenna. Che è stata la prima a mettersi in moto mostrando grande coraggio. So che ha poi contribuito a sbloccare la situazione».

Il 28 giugno ha condotto l'orchestra di Riccardo Muti, la Cherubini. Come ci si sente dirigendo la creatura di un collega?

«Con Muti siamo più che buoni colleghi. È un artista rispettato e amato in tutto il mondo. Proprio per questo è lodevole che investa il suo talento artistico, conoscenza e incredibile reputazione nei giovani musicisti. È ammirevole che artisti come lui, penso a Bernstein Karajan, Solti o Celidibache, decidano di trovare e poi donare il proprio tempo ai giovani».

Ci racconti un aneddoto di questa lunga amicizia.

«Undici anni fa Muti venne a San Pietroburgo per Don Pasquale con la Cherubuni e un cast di giovani cantanti. Un tale capolavoro eseguito in modo così brillante da giovani interpreti! Muti mi disse: 'Posso portarmi via le vostre sale da concerto?'. A colpirlo, l'acustica impeccabile. In gennaio abbiamo diretto i Wiener Philharmoniker nel concerto alla memoria di Mariss Jansons: un grande uomo oltre che musicista, che perdita».

A San Pietroburgo è riuscito a far costruire teatri e sale da concerto, praticamente un intero quartiere musicale.

«Siamo diventati la realtà più grande della Russia. Aggiungo: parecchio più grande, anche del Bolshoi. Alludo all'intensa attività estesa all'intero Paese».

Vedi i vari festival del Mariinskij da un capo all'altro della Russia.

«Da Vladivostok all'Ossezia del Nord. Luoghi della musica che riusciamo a riempire con straordinari talenti. Perché la Russia continua a essere la fucina dei numeri uno. Basta vedere cosa esce dal concorso Cajkovskij di Mosca».

Che lei dirige.

«Non sono nella giuria. Io supervisiono e consegno i premi».

Quale premio ha consegnato con particolare soddisfazione?

«Quello al pianista Daniil Trifonov. Proposi che andasse a lui la medaglia d'oro. Lo seguivo da tempo».

Sempre in tema di fuoriclasse. Ancora una volta, l'ultimo prodigio assoluto è russo: la dodicenne Alexandra Dovgan.

«L'ho sentita che aveva solo 9 anni, piccola e minuta. Anche a lei ho consegnato un premio. Tutti questi fenomeni rendono la mia vita ancor più interessante».

Il futuro della musica è salvo: non manca la materia prima.

«Il mondo musicale dovrà affrontare almeno due anni di grandi sfide. Dobbiamo superare questa crisi proteggendo i nostri maestri e le migliori tradizioni. Va custodito quanto è stato costruito nei secoli così da passarlo alle future generazioni. Un compito che spetta anzitutto a Paesi musicali come l'Italia e la Russia. C'è un patrimonio da tutelare».

Lo spettacolo dal vivo conosce l'ora più buia, il presidente Vladimir Putin vi è vicino?

«Putin supporta l'arte e la cultura, e non solo il Mariinskij. Non fa mancare il suo intervento. C'è».

Vi siete parlati recentemente?

«Sì, eravamo in cinque, il presidente, io, il direttore del Museo Puskin e altri due rappresentanti di istituzioni, eravamo in videoconfernza. Sono sicuro che farà del suo meglio. Non si limiterà a evitare che i grandi colossi crollino, così come noi non ci limitiamo a chiedere supporti».

Cosa ha chiesto o proposto?

«Ho ricordato che una compagnia di ballo, un coro o orchestra non possono stare sette mesi senza lavorare: così li uccidiamo. Pensiamo ai nostri cori che mandano a memoria testi in sei lingue, senza esercizio si perde tutto. Gli artisti hanno bisogno di lavorare ogni giorno».

Altrimenti la tenuta è compromessa.

«Si può riprendere anche dopo mesi, certo, ma come? Si perde irrimediabilmente in qualità, tensione, potenza, è inevitabile entrare in una zona grigia. Problema che riguarda tutti».

Non escluse le star.

«Soprattutto le star, abituate - come sono - ad assicurare alte prestazioni, ad essere sempre sotto pressione».

La mente va al soprano Anna Netrebko, una sua scoperta.

«Mi sento spesso con Anna. Artisti come lei hanno perso contratti importanti, sono saltati appuntamenti dietro i quali ci sono mesi se non anni di lavoro, di lunga preparazione. La cosa che più inquieta è che non sappiamo come, quando e dove potremo tornare ad attingere al 100% delle nostre energie e capacità di fare grande musica. Il Covid ha messo in ginocchio l'intera comunità di artisti».

C'è chi soffre più degli altri. Dal Covent Garden al Metropolitan di New York i cui dipendenti non hanno stipendi dal primo aprile.

«Per gli amici americani sì, è ancor più dura. In Europa, i Governi tendono a sostenere la cultura».

Per la verità, in questi anni in Italia sono state sciolte orchestre, manca una vera educazione musicale o anche solo alfabetizzazione.

«L'Italia non può perdere le sue tradizioni. Immaginiamo se venisse qualcuno da Singapore o Nuova Zelanda per salvare il vostro sistema. Stesso discorso per la Russia. Cose inammissibili. Per i Governi deve essere chiaro che la cultura è una priorità. È importante occuparsi della salute e salvaguardia delle persone che perdono il lavoro. Ma questo non significa ignorare priorità SACRE - riesce a scriverlo in stampatello? - legate alla cultura. Ma ripeto. In Europa va meglio che altrove. Credo che anche la Cina non smetterà di sostenere la cultura, idem per Corea e Giappone.

Questi ultimi due Paesi hanno però un sistema differente rispetto al nostro. Mi spiego: La Scala l'avete solo voi, è a Milano. E per Scala intendo le sue masse artistiche, il passato carico di storia. Istituzioni come queste sono il mezzo per far vivere la nostra tradizione. Possiamo esistere senza gli Uffizi, la Cappella Sistina o l'Hermitage? No, dunque vuol dire che c'è un patrimonio da tutelare».

E' nota la sua natura vulcanica, dinamismo, lavora anche negli intervalli dei concerti. Come ha vissuto il lockdown?

«Ascoltando, ascoltando e ascoltando musica. Anche stamani, alle 7 ascoltavo la Seconda sinfonia di Mahler. Mi sono concentrato su mie incisioni non avendo mai il tempo di farlo».

In casa la si vede poco, dicono. I familiari vengono in teatro per incontrarla. Per una volta, si sarà invertita la rotta

«E stando in famiglia ho avuto la soddisfazione di vedere mio figlio studiare ininterrottamente».

Pianista, corretto?

«Sì ha 19 anni. Ma già fa il concerto di Scriabin, Poulenc, il Primo i Prokofiev. Lo sentirete presto».

Difficile essere musicisti quando si è figli di Gergiev.

«Per questo studia moltissimo. Anche se io non lo forzo. Non sta nella mia natura. Io stesso non fui forzato a studiare musica».

Fu un'idea di mamma, è noto il vostro legame profondo. Come si sente a un anno dalla perdita?

«Sono andato sulla sua tomba a fine giugno, è accanto a quella di mio padre, nell'Ossezia del Nord. Poi sono stato nella casa dove vivevamo, a Vladikavkaz. Lì ho bellissimi ricordi. Sono cresciuto in mezzo alla natura, immerso in un paesaggio grandioso, nel Caucaso: la terra dei miei antenati».

Quanto è patriota?

«Patriota io? Se il termine vuol dire amare profondamente la propria patria, la risposta è sì, lo sono molto».

Cosa risponde a chi l'accusa di essere un musicista politico?

«Di aver assunto chiare posizioni dirigendo fra le macerie ossete dopo gli scontri con la Georgia, a Beslan per le vittime degli attacchi ceceni, a Palmira per festeggiare la liberazione dall'Isis. La mia orchestra è sempre intervenuta a supporto dei popoli. A me non interessa cosa dicono i Governi, ma cosa pensano i popoli».

Torniamo all'Italia. I primi ricordi italiani?

«In parte sono legati proprio a Ravenna, venni con Rostropovich e poi con una Netrebko sconosciuta, addirittura nel secondo cast. Prima cosa che feci fu andare sulla tomba di Dante. Ah, la vostra Italia, arte ovunque anche nel paesino più sperduto. Un altro ricordo, Parsifal a Ravello con Placido Domingo. Poi l'incontro con Maurizio Pollini, con Uto Ughi. Ho tanti amici in Italia e purtroppo alcuni li ho persi per il coronavirus, penso a Giuseppe Gazzoni (ndr imprenditore, ex-patron del Bologna) ci frequentavamo da 30 anni. Che tristezza tutto questo. Anche l'Italia ha sofferto molto, soprattutto la città di Donizetti».

Bergamo.

«Non ricordo il nome, so solo che è molto bella e vi è nato Donizetti».

La pandemia cosa sta imprimendo alla sua anima d'artista?

«Mi ha fatto venir voglia di programmi più leggeri, freschi, perché dopo questa tragedia abbiamo bisogno di un sollievo. Ho in programma operette».

Gergiev alle prese con il genere dell'operetta? Ci spiazza.

«Tutti noi amiamo Otello e Guerra e Pace però dobbiamo tornare a gioire, c'è bisogno di levità».

Le crisi portano anche opportunità.

«Se proprio devo trovare una nota positiva in tutto questo, penso alla nostra mariinskij.tv, creata dodici anni fa, e che in tre mesi ha raggiungo 90 milioni di persone, di cui 74 milioni in Russia. Una media di un milione al giorno».

Arrivò al Mariinskij nel 1988, ha evitato che il teatro finisse fra i relitti sovietici. Dopo aver superato quei momenti, penso abbia gli anticorpi per ogni genere di crisi.

«Ma ero giovanissimo. E questa è una crisi diversa, mondiale. Furono comunque anni difficili, almeno fino al 1995, un barlume di luce nel 1996-98, poi il vero decollo.

Fu fondamentale capire che il nostro successo sarebbe dipeso dall'accoglienza all'estero dove potevamo offrire fior di artisti che facevano impallidire i tanti di routine che circolavano all'epoca».

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