Italiani, state attenti a quel che dite

Caro Granzotto, sono perfettamente d’accordo con lei nella denuncia dell’inammissibile «e quant’altro» e nella occasione mi pregio di notificarle la mia appartenenza alla parte «ecceterista» in discordia con quella «quantaltrista», però lei dà per buoni anche l’«andare a condire» e l’«andare a infornare» che a mio giudizio scempiano invece la nostra bella lingua. Invece urge far muro! Il parlare comune è affastellato di espressioni che stravolgono il duplice negativo come nel caso dell’abusato «non me ne può importare di meno» che significa in verità «me ne importa di più», mentre nello scrivere comune si ricorre sempre più sovente - e lo fa anche lei - ai «semmai», «sennò», «oddio», eccetera. Per non dire della banalizzazione del linguaggio e conseguente morte del congiuntivo o del passato e trapassato remoto sostituiti dal passato prossimo, della scomparsa del futuro anteriore, dell’uso sconsiderato del verbo «fare» a cominciare da «a far data» per finire a «far fuori», «fare scalpore», «fare il morbillo», «farsi un dovere», «farsi un’automobile» fino al vernacolare «gli ho fatto» al posto di «gli ho detto». Scommetto che lei assolve anche il raccapricciante e cannibalesco: «Dottore, il bambino non mi mangia!». Qualcuno ha detto che il degrado nazionale è sempre annunciato da una degradazione nel linguaggio. Se poi ci mettiamo anche ad essere di manica larga dove si andrà a finire?


Per dindirindina, caro Amato, che filippica! Ammetto che il «semmai» o il «sennò» mi garbano, ma la così detta mimesi dell’oralità non è considerata, sempre che non se ne abusi, peccato mortale. Ammetto ovviamente la dilagante banalizzazione del linguaggio reso più insulso dalle massicce immissioni di sgangherati anglismi (dedicaded, cioè specializzata, che diventa «dedicata»; mission, cioè finalità, obiettivo, che diventa «missione»; scope economy, cioè macroeconomia, che diventa «economia di scopo»; realize, cioè capire, che diventa «realizzare»; sensibile, cioè considerevole, importante, che diventa «sensibile»; affluent society, cioè società ricca, opulenta, che diventa «società affluente»; suspect, il sospettare, che ha mantenuto il significato, però diventando sostantivo per cui ormai si dice e si scrive «il sospetto» in luogo de «il sospettato». Continuo?). Ma il dativo affettivo o etico, no, non me lo tocchi.
Mi riferisco a «il bambino non mi mangia» (o «non mi fa la pipì»), «che mi combini?», «mi prenda questa medicina e vedrà che starà meglio» (i medici ricorrono spesso al dativo etico) e via discorrendo. Il fine del costrutto è semplice: coinvolgere emotivamente la persona alla quale ci si rivolge e una lingua seria fornisce gli strumenti necessari per farlo. Sono ammattito per trovarle un esempio nobile, alto, tale che la facesse ricredere sul dativo etico. Cerca e cerca ci sono riuscito. È tratto da una lettera che Santa Caterina da Siena scrisse a Papa Gregorio XI. Farà venire l’orticaria ai pacifisti, ma sai quanto me ne cale: «Dolce padre mio, con questa mano vi prego e vi dico che veniate a sconfiggiare e’ nostri nemici: da parte di Cristo crocifisso ve ’l dico. Non vogliate credere a’ consiglieri del dimonio, che volessero impedire el santo e buono proponimento. Siatemi uomo virile e non timoroso».

Siatemi uomo virile. Bello, eh? Ha un tono affettuoso, un tono che si potrebbe fin dire materno, non trova, caro Amato? Come altrimenti avrebbe potuto esprimere quel sentimento, Caterina, senza ricorrere al dativo etico?

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