Cultura e Spettacoli

L’eterno male oscuro dell’AMERICA LATINA

Il nuovo saggio di Alvaro Vargas Llosa su un continente che abbandona il liberalismo e torna vecchio e statalista

Agli inizi del Duemila il cabarettista più alla moda a Rio de Janeiro si è scelto come nome d’arte «Lenin». Nel vicino Uruguay era appena salito al potere Tabaré Vázquez alla testa del Frente Amplio, che comprende i figli e i nipoti dei Tupamaros. Il Parlamento del Venezuela si è riunito in una piazza di Caracas per votare, entusiasticamente e all’unanimità, ulteriori pieni poteri al presidente Hugo Chávez, portandolo più vicino di un altro passo alla dittatura mentre lui si trovava a Cuba a far le solite quattro chiacchiere con il suo amico Fidel Castro. Il Parlamento dell’Ecuador, in cui è maggioranza l’opposizione moderata, è stato invaso e devastato dai sostenitori del presidente Rafael Correa, amico e imitatore di Chávez, scesi in piazza a Quito a reclamare pieni poteri anche per lui. In Bolivia è venuto fuori che il «direttore delle comunicazioni» del presidente Evo Morales, un grande amico di Chávez e di Castro venuto dal Perù, è sotto inchiesta per la sua passata militanza nella branca peruviana dei Tupamaros, una delle più famose e antiche organizzazioni terroristiche dell’America latina. I figli, o nipoti dei Tupamaros, del resto, fanno parte della coalizione di governo in Uruguay. In Nicaragua è appena tornato al potere attraverso libere elezioni l’ex dittatore sandinista Daniel Ortega.
In Brasile, certo, non comanda il cabarettista ma un veterano della Sinistra democratica come Luiz Inácio Lula da Silva che, nonostante i modi e il passato pittoreschi, cerca di attenersi al riconoscimento delle realtà economiche e politiche; ma anch’egli è sotto pressione da parte dell’ala più radicale della coalizione che lo ha portato alla presidenza. L’Argentina, infine, è tornata all’egemonia peronista, anacronistica già nel nome, nella sua versione di sinistra preferita da Nestor Kirchner, dopo il fallimento politico dell’ambizioso progetto di riforma dell’economia che avrebbe dovuto condurre Buenos Aires al posto che storicamente le spetterebbe, accanto all’Europa e al Nord del mondo. La sinistra nelle sue varie sfumature controlla più di 300 milioni dei meno di 400 milioni di abitanti dell’America latina e il numero non accenna a diminuire. Si sono «salvati» in controtendenza, fra i Paesi più importanti, il Messico e il Perù; oltre naturalmente al Cile, che è un caso completamente a parte.
Queste le somme. La Ibero-America è in piena crisi di rigetto degli esperimenti liberali e liberisti tentati negli ultimi anni un po’ dovunque nel mondo. Dopo decenni di protezionismo, nazionalismo, guerriglia e dittature il continente era parso imboccare con fiducia la strada del mercato e della democrazia. E poi ha cominciato a tornare indietro. È un’onda rabbiosa e probabilmente anche un’onda lunga. Non è la prima volta che ciò accade. Ci provarono, più di un secolo fa, dei politici di scuola positivista, «los cientificos», ispirati dalla filosofia positivista di Auguste Comte con la sua fiducia illimitata nell’ «Ordine e nel Progresso» (due parole che finirono addirittura, e ancora stanno, al centro della bandiera del Brasile). Ci riprovarono cinquant’anni dopo e di nuovo più di recente, cercando in sostanza di estrapolare la parte economica del «modello cileno» (reso possibile dalla dittatura di Pinochet ma pienamente assorbito dopo il ritorno al sistema costituzionale). Coniugandolo con l’espansione della democrazia e si è riusciti, in effetti, a scrollarsi di dosso le anacronistiche dittature militari, in parte sopravvissute alla Guerra fredda; ma evidentemente funziona bene solo in Cile. E allora i popoli dell’America latina si sono convinti che bisognava cambiare di nuovo ricetta. Constatando però che di medicine sul mercato mondiale non ce ne sono, subiscono la tentazione di ritornare in qualche modo ai falliti esperimenti del passato: copiandoli ciecamente, come i tanti Chávez, o cercando, altri, di rinverdire gli slogan e il linguaggio «rivoluzionario» ma non la rivoluzione. Una dicotomia che salva dal peggio Paesi come il Brasile ma accentua ancora di più la confusione e contribuisce a rinviare ogni serio riesame.
Mentre si dilata a macchia d’olio dal Venezuela il «castrismo del Duemila» incarnato da un Chávez che non solo parla ma comincia ad agire come il suo modello degli anni Cinquanta e Sessanta. Con la differenza che Castro ha predicato e agito in un’isola povera che il suo esperimento ha ulteriormente impoverito, mentre Chávez controlla uno dei maggiori Paesi produttori di petrolio nel mondo, e può dunque permettersi di fare suoi tutti gli slogan dell’estrema sinistra latinoamericana, quella variegata e spesso arcaica, sempre emotiva, che in lui crede di aver trovato, o finge di trovare, il continuatore del «Che» Guevara.
Queste le somme. Ora ci si interroga sulle cause di tale involuzione. Se un modello non attecchisce in un terreno, è colpa del modello o della sua applicazione, del seme o del terreno? La prima spiegazione è la più diffusa, anche non tiene conto abbastanza della realtà degli straordinari successi dell’esperimento neoliberale verso la fine del secolo scorso, soprattutto in Asia. La seconda. interpretazione è avanzata ora da Alvaro Vargas Llosa, peruviano di nascita (è figlio di Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura e sfortunato candidato alla presidenza a Lima), Alvaro non è un romanziere ma un economista liberale. Egli dedica il suo ultimo saggio, Libertà per l’America latina (che in Italia esce per i tipi dell’Editore Leonardo Facco, pagg. 307, euro 15), a un appello e a una formula: «come mettere fine a cinquecento anni di oppressione di Stato», ma parte dall’esplorazione di un passato più lontano per individuare le cause dei malanni del passato recente e del presente. Va a esplorare, insomma, il «male oscuro» dell’America latina.
La sonda va nel profondo. Una delle maggiori originalità del pensiero di Vargas Llosa è il rifiuto del luogo comune secondo cui i malanni latinoamericani sono retaggio della «conquista» europea. L’autore dimostra che i Conquistadores, con tutti i loro difetti, colpe e delitti, si trovarono a operare in un terreno già malato. Gli Stati più sviluppati dell’America precolombiana si reggevano su «cinque prìncipi di organizzazione sociale, economica e politica che opprimevano l’individuo: corporativismo, mercantilismo di Stato, privilegio, trasferimento della ricchezza e legge politicizzata». Quegli Stati avevano in comune la caratteristica che «le leggi e il potere non si riferivano alle persone ma ai gruppi, determinate dalle loro funzioni». Dunque non esistevano nell’interesse della gente ma invece «richiedevano che la grande maggioranza devolvesse i suoi sforzi al mantenimento e all’arricchimento di una classe privilegiata»; oppressione ulteriormente accentuata dalla «natura sacra dell’autorità, incarnata in un Governante supremo che era o un discendente degli dei o una figura divinizzata». Una persona non era una persona. Era un ingranaggio in una macchina. Esisteva solo in quanto appartenente a un’entità collettiva. La grande maggioranza era incatenata al lavoro agricolo, le élite «organizzavano la burocrazia, amministravano imperi e regni. L’intero tessuto sociale era frammentato», dunque impedito di produrre spontaneamente, dal basso, le forme di società che avrebbero agevolato il progresso.
Sono stati così distorti, per cinque secoli fino al presente, tutti i modelli importati dall’Europa e, più tardi, dagli Stati Uniti fino al marxismo. L’Europa aveva inventato l’«America» come utopia e l’America, quella ispanica, ci restituiva facendo di noi la sua utopia. Assorbendo soprattutto i nostri sogni più torbidi.

Questa la radice di una lunga tragedia.

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