Cultura e Spettacoli

L’evoluzione nel nome di Dio

Creazione senza Dio di Telmo Pievani (Einaudi, pagg. 137, euro 8) è stato finito di stampare solo un mese dopo Dio e l’evoluzione di Alister McGrath (Rubbettino, pagg. 207, euro 15), ma si direbbe scritto per rispondervi. Il senza del titolo si contrappone alla e del titolo italiano di McGrath, che in inglese suonava: Il Dio di Dawkins: geni, memi e il significato della vita (Blackwell, 2005). Il Dawkins di McGrath è il modello di Pievani quando depreca chi «si scaglia contro Darwin»: benché oggi sia difficile trovare qualcuno che contro Darwin «si scagli»: Darwin oggi è rispettato anche da chi ne contesta su qualche punto la dottrina.
Può darsi che, non contro Darwin ma contro i neodarwinisti abbiano voglia di scagliarsi i sostenitori del «disegno intelligente» per spiegare la creazione; ma questa teoria, anche se espressa in modo imperfetto, non è assimilabile a quella del «Dio degli spaghetti volanti» con cui ironizza un certo Bobby Henderson. Per parte mia voglio osservare che dalla disputa in corso è assente una linea di pensiero che sarebbe atta a dirimerla: la linea che da Plotino, attraverso un inconsapevole Schopenhauer, discende fino a Henri Bergson.
Design è una metafora che corrisponde a «progetto». Ora Dio, secondo Plotino, comunque lo si pensi, non progetta, perché non ha bisogni da soddisfare raggiungendo uno scopo. Se, come vuole la nostra tradizione, crea, lo fa per «magnificenza»: una virtù che Aristotele descrisse come manifestazione gratuita di grandezza. McGrath (pag. 206) cita il Salmo 19,1: «I cieli proclamano la gloria del Signore»; e «gloria» (in greco dexa) è manifestazione di grandezza non strumentale.
Su questo punto, al di là delle polemiche, c’è una concordanza di fondo. McGrath ci ricorda che il Dio come «orologiaio perfetto» è un’immagine massonico-leibniziana intesa a spiegare l’universo come un meccanismo. E Pievani, sulle orme di Dawkins, giunge a parlare di «blasfemia del disegno intelligente» (pag. 126). Ma l’universo, e in particolare la vita che vi si sviluppa, non è un meccanismo, come quelli che noi uomini costruiamo per soddisfare un nostro bisogno. E le imperfezioni che notiamo nel mondo non sono imputabili a un «orologiaio cieco» trascendente, che come orologiaio certo non esiste.
Nel suo viaggio intorno al mondo Darwin si persuase che gli argomenti apologetici del reverendo William Paley, autorevole teologo dell’età vittoriana, non reggono. Rinunciò allora a ogni tentativo di «giustificare Dio» dall’aver creato un mondo crudele, ma non desunse mai, di qui, la necessità di professarsi ateo, come fanno Dawkins e il suo discepolo italiano.
Chi si sente in dovere di essere ateo lo fa, nella migliore delle ipotesi, perché persuaso che i creazionisti siano nemici irriducibili della scienza e della libertà di ricerca. Ma l’esempio, che ho citato, di Bergson, mostra l’esatto opposto. Bergson - che intitolò il suo libro più celebre L’evoluzione creatrice (meglio forse sarebbe stato dire «creativa») - era tutt’altro che un «fissista». L’intero universo è per lui come un animale in evoluzione costante, ma non per un meccanismo, bensì per uno slancio interiore, che egli chiama «slancio vitale». Se in esso si debbano riconoscere le fattezze del «vecchio Dio» si può discutere, ma in ogni caso è da escludere che si tratti di ateismo quale è professato da Dawkins e - con un salto in basso nella qualità letteraria - da Pievani. Eppure Bergson cominciò come seguace di Spencer, criticò il concetto di «cause finali» e fu sempre attentissimo ai progressi delle scienze, di cui non aveva difficoltà a seguire il linguaggio matematico.
Lo stesso McGrath: si addottorò anzitutto in biofisica molecolare e solo più tardi, dopo aver studiato filosofia, divenne teologo. E Giovanni Federspil - che ha curato l’edizione italiana del libro di McGrath - è professore ordinario di Medicina interna all’Università di Padova.
Il punto, però, è un altro: di dove viene l’evoluzione? Da una spinta interna o dall’esterno? Dall’esterno viene una selezione naturale, pensata esplicitamente da Darwin sul modello della selezione artificiale praticata dagli allevatori. Ma selezione significa «scelta»: scelta tra qualcosa che c’è già; e la selezione naturale, spontanea, presuppone qualcosa, non la crea. Questo allontana i sostenitori di una evoluzione «dall’interno» dai neodarwinisti (non da Darwin). Ricorrere al «caso», come fece Jacques Monod, non serve. La possibilità che qualcosa avvenga «a caso» è esattamente dello stesso tipo della possibilità che la facciamo noi, spostando in uno spazio elementi dati momentaneamente immutati («atomi»). Ma la «creazione», anche nel senso ridotto in cui ci diciamo creatori noi, non si riduce a questo, neppure quando avvenga «a caso», ad esempio battendo a caso i tasti di un pianoforte. Solo una «sensibilità superiore» ci permette di distinguere se «il gatto sulla tastiera» abbia prodotto un’opera d’arte o no.
Ha ragione, dunque, McGrath: «Gli scienziati e i teologi hanno molto da imparare gli uni dagli altri» (pag. 216). Ed è un grave danno per la cultura l’oblio che avvolge Bergson, che ai suoi tempi, secondo un’inchiesta, era secondo per popolarità in Francia soltanto a Maurice Chevalier. Senza dubbio da allora la scienza ha fatto enormi progressi, che però non le permettono di sostituirsi, non dico alla teologia, ma alla più laica delle filosofie.

Quanto minore la confusione, tanto maggiore la collaborazione.

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