Cultura e Spettacoli

L’intellettuale più disorganico del Medioevo

Si chiamava Mosè, ma le acque non le separò, come fece il suo omonimo più famoso: al contrario, le unì. Nel senso che, grazie a una solida cultura multidisciplinare e soprattutto multietnica, seppe far dialogare, quantomeno sul piano letterario, i tre grandi «fiumi» monoteisti, alimentando con le loro tradizioni il vasto lago della novellistica.
Ebreo nato in Spagna, nella città aragonese di Huesca, intorno al 1076, sui trent’anni si convertì al cristianesimo («mi sono tolto di dosso il velo della falsità e mi sono spogliato della tunica dell’iniquità», scrive nel Dialogus contra Iudaeos) «nel giorno degli apostoli Pietro e Paolo». A fargli da padrino, nientemeno che il re Alfonso in persona. Ed ecco spiegati nome e cognome con cui divenne un’auctoritas del Medioevo: Pietro Alfonsi. Prima del grande passo, però, aveva predicato nella sinagoga, e lungamente dibattuto, in arabo, con i musulmani. Fu quindi da «converso» illuminato come pochi che compose (probabilmente in Inghilterra, sua seconda patria) una gustosissima raccolta di narrazioni esemplari, tenute insieme dal filo conduttore del dialogo fra un padre e un figlio. La intitolò Disciplina clericalis, dove il chierico in questione non è l’ecclesiastico, bensì l’intellettuale.
«Non pervenuta», in traduzione italiana fino a pochi mesi fa, quest’anno l’opera è stata gratificata di ben due edizioni nostrane: prima quella curata da Edoardo D’Angelo per Pacini di Pisa e ora questa della Salerno editrice che dobbiamo a Cristiano Leone. Quest’ultimo, nell’Introduzione, coglie in pieno il punto nodale del “caso Alfonsi”, dicendo che la conversione dell’autore «convertì anche i suoi racconti, che dell’Oriente conservarono il fascino, ma che furono accolti perché approdati - riemersi - in piena cristianità, in seguito a una “immersione battesimale”». Così quella massa di materiale poliedrico e rutilante che attingeva alle leggende ebraiche e a quelle arabe, alla Persia di Sindbad il marinaio e all’India dell’antologico Kalila e Dimna, si diffuse a macchia d’olio prima nel mondo anglosassone e poi sull’intero continente. Non solo: predicatori cristiani come Giacomo di Vitry e Vincenzo di Beauvais, prime firme e opinion maker dell’Europa medievale, dice Leone, la «utilizzarono come exempla nei loro sermoni».
Quanto al dato prettamente artistico, sia le forme, sia i contenuti della Disciplina clericalis si riverberano sulla produzione di autori che, dal punto di vista della scrittura e della «sceneggiatura» delle loro storie, guardano dall’alto in basso il buon Pietro, ma che gli devono comunque sempiterna riconoscenza per alcuni soggetti che seppero sviluppare alla grande. Parliamo di Geoffrey Chaucer (1343-1400) e di Giovanni Boccaccio (1313-1375). L’incontro fra i due, teoricamente possibile, visto che il tour italiano dell’inglese lo portò anche a Firenze, fra 1373 e ’74, se anche fosse avvenuto, non basterebbe a motivare la «fratellanza» che lega le loro opere. Dall’avo Alfonsi discendono in buona parte tanto i Canterbury Tales quanto il Decameron, e la loro popolarità senza confini si radica nei caratteri del servo avido, del marito cornuto, della mezzana, della fanciulla virtuosa... E anche della vecchia intrallazzatrice che troviamo in un luogo insolito come il Doctor Faustus di Thomas Mann. È la storiella della cagnetta che piange, breve parentesi d’ilarità negli studi del tormentato Adrian Leverkühn. Mann la scovò nelle Gesta Romanorum.

Un altro figlio, più che legittimo, di Pietro Alfonsi, l’uomo che unì l’Europa nel nome delle novelle.

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