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L'addestramento serve anche durante un sisma

Il sergente maggiore Matteo Botti ha vissuto il dramma de L'Aquila. È stato tra i primi a portare aiuto nelle rovine

Cristina Bassi

Trovarsi dall'altra parte. Da quella di chi ha bisogno di soccorso, pur essendo per missione un soccorritore. È successo nell'aprile del 2009 al sergente maggiore Matteo Botti. Terremotato all'Aquila e, insieme, tra i primi a intervenire per mettere in salvo la gente della sua città.

«Io e molti dei miei commilitoni del Nono reggimento alpini dell'Aquila - spiega - in quell'occasione siamo stati soccorsi e soccorritori allo stesso tempo. Questo ci ha permesso di capire con un solo sguardo lo stato d'animo e la condizione di coloro che aiutavamo». Dieci anni fa l'alpino, che aveva 25 anni, abitava in via XX Settembre con la sua famiglia. Nato a Roma, Botti vive in Abruzzo da quando ha 3 anni. Nella casa che quella notte è stata distrutta. «Il 6 aprile ero da pochi mesi rientrato da una missione in Afghanistan - racconta -. Ero con mia madre, mio padre e mio fratello minore. L'altro fratello, anche lui alpino, si trovava a Torino. C'erano già state alcune forti scosse e non eravamo preparati a quella più terribile delle 3.32, che ha fatto andare giù tutto. Per lunghissimi secondi sono rimasto seduto, non era possibile stare in piedi. I solai cedevano, le pareti si aprivano e vedevamo le luci della strada sotto i nostri piedi. Dai piani inferiori sentivo i vicini urlare e chiedere aiuto».

La situazione è subito apparsa drammatica. I crolli e le macerie ostruivano le porte degli appartamenti, dall'interno non si potevano aprire. L'unica non bloccata era quella di casa Botti. Il sergente maggiore ha fatto prima uscire e ha messo in salvo tutta la sua famiglia. «Poi ho cominciato a buttare giù le altre porte, c'erano molte persone intrappolate, anche bambini e donne incinte. Restava poco tempo, il palazzo stava venendo giù. A piano terra una famiglia con un bimbo di tre anni era incastrata. Sono entrato, la casa era devastata e la polvere era più fitta della nebbia. Non vedevo nulla, neppure con la torcia elettrica. A un certo punto ho visto comparire davanti a me il volto imbiancato del piccolo, che mi veniva passato dal papà attraverso i detriti». Dopo aver soccorso i vicini da solo, l'alpino si è unito ad altri ragazzi incontrati in piazza e in gruppo hanno fatto il giro del centro storico e tirato fuori dalla case in rovina molti altri abitanti.

«La mattina dopo - continua il militare, oggi 35enne - ero di nuovo in caserma al Nono. Ci siamo organizzati in squadre per aiutare il resto della popolazione. Eravamo stati colpiti in prima persona e avevamo perso la casa, da cui non avevamo potuto recuperare nulla. Le nostre emozioni erano forti e contrastanti, ma è entrata in gioco la professionalità. Dovevo evitare di pensare, mentre aiutavo gli altri, che l'abitazione in cui avevo vissuto per 25 anni non c'era più. L'essere nella stessa situazione di chi abbiamo soccorso ci ha dato la forza di continuare. Tutto questo è stato possibile anche grazie alla nostra preparazione. Proprio perché eravamo alpini abbiamo potuto dare qualcosa in più».

Botti è dovuto tornare a vivere in caserma in quel periodo, ma ha comunque potuto fare il lavoro di sempre, come comandante di squadra. Negli anni ha svolto missioni all'estero e in diverse parti d'Italia: due volte in Afghanistan, una in Libano, l'operazione Strade sicure a Roma, il servizio per il G8 dell'Aquila e a tutela dei cantieri della Tav a Chiomonte. «La missione all'estero, in teatro di guerra - sottolinea - è la massima realizzazione per un militare operativo. La situazione in cui metti in pratica l'addestramento ricevuto e per cui ti sei preparato lungo tutta la carriera». Ma c'è un segreto in più: «La mia famiglia mi ha sempre appoggiato. Un fattore fondamentale, che ti dà serenità quando sei impiegato a migliaia di chilometri di distanza e qualcun altro si fa carico per te dei problemi di tutti i giorni. I familiari dei soldati fanno un grande lavoro, fanno la vita militare senza avere le stellette e, se non bastasse, affrontano le difficoltà di casa». Brutte esperienze in zone di guerra? «No, è andato tutto bene. Per fortuna ma anche per merito della formazione che avevamo alle spalle».

Nella famiglia di Matteo Botti quella dell'alpino è una tradizione lunga decenni. Il nonno, lo zio, il padre, i due fratelli: tutti hanno indossato il cappello con la penna nera, anche se magari successivamente qualcuno ha imboccato altre strade. Per il sergente maggiore, non esiste un corpo compatto quanto gli alpini: «È difficile sentirsi una famiglia come accade fra noi, anche e soprattutto quando siamo in missione all'estero». Un attaccamento dimostrato pure per la sua città, nel momento del terremoto e in seguito: «Molti sono andati via dopo il disastro. Non hanno creduto nella ripresa. Io, testardamente, ho deciso di rimanere. Anche se non è stato per niente facile. Lo faccio per i miei figli, vorrei che un giorno rivedessero l'Aquila com'era prima del sisma. O anche ricostruita meglio di prima. Questo è il mio grande sogno». Per il resto nel futuro del sergente maggiore ci sono la vita militare insieme a quella familiare: «Di sicuro tornerò in giro per l'Italia e per il mondo.

Dove serve e dove c'è un'emergenza, noi ci andiamo».

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