Cultura e Spettacoli

LANDOLFI Custode dell’inquietudine

«In società», raccolta di magistrali esercizi di stile che descrivono ansie, angosce e incertezze del vivere

La Piccola Biblioteca Adelphi ha ristampato In società, di Tommaso Landolfi (pagg. 220, euro 11). Pubblicata per la prima volta nel 1962 da Vallecchi, l’opera non era più apparsa in volume singolo. Si tratta di un insieme di racconti usciti negli anni Cinquanta sul Mondo di Mario Pannunzio, rivista di cui Landolfi fu collaboratore di spicco, tanto che nel 1960 vi erano comparse le narrazioni di Se non la realtà: storie di viaggi nelle regioni d’Italia (edite anch’esse da Adelphi nel 2003).
Diceva Alberto Moravia, che Landolfi non ottenne il successo che si sarebbe meritato perché aveva condotto vita appartata, senza mai concedersi al pubblico. Valutazione non del tutto azzeccata. Sebbene morto nel 1979, Landolfi continua a essere in libreria e le sue opere sono tradotte e apprezzate all’estero. Significa che sta vincendo la sua battaglia contro il tempo, il quale non l’ha logorato. Anzi, gli ha conferito una forza maggiore, dimostrando ciò che in realtà è: un grande scrittore; uno dei pochi che abbiamo. La sua pagina non solo irretisce il lettore, ma lo costringe a riflettere. Ogni frase, più che scritta pare scolpita, ogni suo racconto o romanzo viaggia, sempre, sulla frontiera tra la vita e la morte; non va mai nell’entroterra, non gli interessano i paesaggi che sono di tutti; gli interessa interrogare l’ignoto. Il medesimo che investigava quando, seduto ai tavoli dei casinò, giocava con la stessa amara ironia di quando stava allo scrittoio e la penna, racconta nei diari, gli s’impuntava, non voleva scorrere, poi partiva come accade ai medium della scrittura automatica.
Le storie fluivano limpide, composte quasi di getto. Infatti le correzioni ai suoi dattiloscritti - come evidenzia la figlia Idolina, curatrice attenta dell’opera paterna, nelle note ai testi - sono minime. Chi entra nel suo mondo, non se ne allontana più. Pochi come lui sanno raccontare la vita nelle sue variegate sfumature, con le ansie, le angosce e le incertezze di questi nostri tempi. Oggi sono molto in voga i cosiddetti corsi di scrittura creativa, che a mio avviso non servono a nulla: la creatività non si acquisisce frequentando delle lezioni, ma bisogna averla dentro alla stregua di un tormento, una passione o un desiderio di scommettere con noi stessi per vedere e capire fino a che punto riusciamo a fare luce in ciò che ci ossessiona e cercare di tramutarlo in parole, in storia. L’artista ha un impatto con la realtà diverso dagli altri, la vede sotto un altro aspetto e dentro una cornice insolita. E la racconta. Soprattutto questo è Tommaso Landolfi, ma lo fa impartendo una duplice lezione: quella di chi crea e quella di chi insegna a scrivere. Le sue pagine sono assolute anche sotto il profilo dello stile. Non a caso Carlo Bo ha osservato che Landolfi era un genio, ma non lo sapeva.
In società è una serie di testi che, a suo tempo, ebbe riscontro di critica e di pubblico, in quanto alcuni vennero trasmessi dalla Rai. Lo stesso successo che ora sta avendo il romanzo Le due zitelle, adattato e interpretato per il teatro da Anna Marchesini. Primo racconto di In società è La mattinata dello scrittore. La giornata sembra una delle tante, suddivisa tra noia, angoscia e ricerca artistica. Destatosi all’alba, lo scrittore è di buon umore. Ma è proprio questo aspetto che non lascia presagire niente di buono. I momenti di bonaccia non sono quasi mai presenti nelle pagine landolfiane, protese alla ricerca di ciò che affligge l’umanità. Il narratore appare quasi stupito di se stesso, e cerca di acquistare tempo: vuole capire meglio questa variazione. Lo fa ricorrendo a piccoli espedienti: cerca di portare a termine un sonetto che rievoca il mese d’aprile, uno dei più luminosi dell’anno. Poi passa a disegnare donne nude, ma neanche questo lo soddisfa: non riesce a dargli le rotondità erotiche che vorrebbe. Si mette in poltrona a leggere un libro. S’addormenta. Al risveglio scende in giardino. Passeggia, l’attenzione imprigionata dai tormenti, che sembra guardare come delle controfigure.
In Landolfi tutto ciò che è sommovimento interiore acquista aspetto, rendendone partecipe il lettore. «Ci si ritrova - ha scritto ancora Carlo Bo - a una speciale forma d’inquietudine, che lavora verso l’interno, nei limiti stessi verticali della sensazione liberata». Lo scrittore s’intrattiene a parlare con la fantesca. Una donna d’aspetto sgraziato ma informata sui fatti del paese. Che a lui potrebbero interessare per comporvi una storia. Infatti la donna gli racconta d’una certa signora di facili costumi, ma piena di umanità. Poi, tutto precipita. Lo scrittore è assalito da un nuovo tormento, da un’oscurità a cui non si può opporre nemmeno il chiarore d’aprile. Gran fumatore, ha perduto il pacchetto di sigarette. Lo cerca ovunque. Finché non apre un cassetto e lo sguardo gli cade su una rivoltella che splende di luce mite. Troppo mite. D’una mitezza che lo invita a compiere l’irreparabile verso se stesso.
Altro testo straordinario è Un ragno. Il protagonista non ha simpatia per questi insetti. Li vede come piccoli incubi, che possono nascondersi ovunque e tendere perfino agguati. Lui sa tuttavia dargli la caccia, non per ucciderli, ma per metterli fuori dalla finestra. Il ragno, assai corpulento, è però malizioso e lo impegna nascondendosi nel buio e contro una trave. È una notte d’autunno, in una villa nelle campagne fiorentine, e tira vento. Il narratore è solo e si deve liberare del ragno. Non ci riesce. Il malessere sale, ma arriva una graziosa gattina, a cui lui è molto affezionato. Lei lo contraccambia, catturando l’insetto.
Pagine intense, e con dei richiami. La fantesca de La giornata dello scrittore rievoca, infatti, Maria Giuseppa, il racconto che apre Il dialogo dei massimi sistemi, uscito nel 1937 da Parenti a Firenze, e che rivela un Landolfi con tutta la sua forza e originalità. Il ragno potremmo accostarlo a Le labrene: una delle quali gli provoca un incubo fino al tramortimento, cui segue un viaggio fuori dal corpo. Mentre una gatta, dolce e affettuosa, la ritroviamo nelle pagine del diario Des mois. Landolfi ritorna infatti spesso su ciò che anticipa o solo accenna per meglio approfondirlo, quasi un atto dovuto a se stesso e al lettore.
Ma com’era l’uomo Landolfi? Di lui si è spesso parlato a sproposito, fino a descriverlo come l’eterno giocatore. Non era affatto così. Mario Tobino, che bene lo conobbe negli anni Quaranta, lo descriveva come un giovane di bell’aspetto, dai modi garbati e che lo facevano somigliare a un attore. S’incontravano alle «Giubbe rosse», lo storico caffè letterario di Firenze, dove Tobino non era considerato ancora uno scrittore, poiché svolgeva il lavoro di medico di manicomio. Eugenio Montale, addirittura, lo snobbava. Non Landolfi, che lo trattava da pari a pari e voleva gli raccontasse le sofferenze dei pazzi, in cui vedeva una delle espressioni di quel male di vivere che avrebbe interpretato nelle sue opere con coraggio e coerenza sino in fondo. Ma lontano dalle ribalte pubblicitarie.

Un atto eroico, visti i tempi.

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