Cultura e Spettacoli

LAWRENCE D’ARABIA Il Signore del deserto

Una mostra a Londra rilancia la leggenda del colonnello che guidò l’insurrezione delle tribù arabe contro i turchi. Un mito che torna utile all’Inghilterra impegnata in Irak

nostro inviato a Londra
Nella prima sala della mostra Lawrence of Arabia. The Life, the Legend, all’Imperial Museum di Londra (fino al 15 aprile), la riproduzione della scultura di Eric Kennington che campeggia nella piccola chiesa di St Martin, nel Dorset - la statua di un fanciullo guerriero - rimanda all’ultima con i cinegiornali che ne celebrarono i funerali. Si vedono Winston Churchill, Lady Astor, il poeta Sigfried Sassoon... Il più bell’epitaffio lo pronunciò George Ambrose Lloyd, l’ultimo grande funzionario delle Colonie: «Era uno di quei rari esseri che sembrano appartenere al mattino del mondo. La sua fine gli sarebbe piaciuta. Una corsa impetuosa, un’uscita repentina».
Un pubblico sorpredentemente giovane si sofferma davanti alle memorabilia belliche, armi, uniformi inglesi e vestimenti arabi, onorificenze, mappe, ritratti e foto di emiri, sceicchi, generali, filmati d’epoca fra cui, restaurato, quell’incredibile documentario, una via di mezzo fra il film e la proiezione commentatata di fotografie, che fu With Allenby in Palestine and Lawrence in Arabia, del giornalista americano Lowell Thomas, ben presto ribattezzato Lawrence of Arabia e che fu alla base del successivo mito. Poche figure possedettero come Lawrence il segreto dell’eterna giovinezza. In Le démon de l’absolu, la biografia mai terminata che Malraux scrisse su di lui, è possibile leggerne il perché: «La giovinezza non è assenza di maturità, ma l’immenso campo della vita di cui conosciamo la natura solo per la nostalgia che ci resta allorché scompare. Certi uomini ne hanno il genio. Disinteresse, coraggio, romanticismo, i sentimenti ai quali Lawrence dovè innanzitutto la sua leggenda, erano sentimenti da adolescente. Il suo dramma - nato dal conflitto fra etica e politica - è il dramma dell’adolescenza; la sua liberazione - questo arruolamento sotto falso nome - il solo atto che avrebbe potuto compiere per continuare a vivere senza demeriti agli occhi degli adolescenti. Il fascino particolare che l’arte esercitava su di lui, la scelta di testi titanici con cui confrontarsi, la passione per la poesia, tutto ciò appartiene alla giovinezza. È questa particolare giovinezza che presso i grandi artisti sopravvive fino all’ultimo giorno. Non c’è grande arte senza una parte d’infanzia. E, forse, nemmeno un grande destino».
Costruita secondo un percorso biografico, l’esposizione racconta una fanciullezza felice eppure malinconica (Lawrence fu il figlio naturale di genitori non sposati e costretti a sotterfugi, e i vari nomi e le diverse identità che assunse via via nella sua esistenza sono debitori di questa ferita iniziale), un’adolescenza segnata dalla passione per l’archeologia, la scrittura, i viaggi (I sette pilastri della saggezza prima di essere il titolo del suo capolavoro fu scelto per un volume su sette capitali del mondo arabo mai finito e poi distrutto) e che poi lo vedrà in un paio d’anni bruciare le tappe della carriera militare, da tenente a colonnello, e assurgere, neppure trentenne, alla fama e alla popolarità.
Non è un caso che, a settant’anni dalla morte, la mostra venga ospitata in quello che è il tempio delle memorie belliche del tempo che fu, l’epitome nostalgica di una grandezza irrimediabilmente scomparsa e proprio per questo sempre rimpianta. Ancora sino a qualche anno fa l’interesse per Lawrence era andato sempre più radicandosi sulla seconda parte della sua vita. Il guerriero, colui che aveva trasformato un pugno rissoso di tribù in un esercito vittorioso era stato tralasciato a favore dell’umile aviere che sotto lo pseudonimo di Ross aveva cercato l’oblio e l’autopunizione. Come sembrava più moderno il racconto dei drammi esistenziali di un uomo a disagio con se stesso e con il mondo a petto dei racconti di guerra e di morte, agli intrighi e ai maneggi della diplomazia, a un’idea del deserto e del mondo arabo che scoloriva fra la cartolina illustrata e l’esotismo a buon mercato dei tour organizzati...
Poi è successo quello che è successo, le Twin Towers, l’Afghanistan, l’Irak e d’improvviso gli inglesi, ma non solo loro, si sono accorti che l’aviere Ross era divenuto inutile. Non era più il tempo dei dubbi esistenziali, delle analisi psicologiche, dei pettegolezzi travestiti da scrupoli biografici sulla sua vera o presunta omosessualità, sul sadomasochismo di pratiche fustigatorie, sulle condizioni pischiche di una mente disordinata... No, ciò di cui si sentiva nuovamente bisogno era del Signore del deserto: il conoscitore del mondo arabo, lo stratega ma anche il manipolatore di masse, il soldato ma anche l’uomo d’onore. Lawrence d’Arabia, insomma.
Non deve quindi nemmeno sorprendere che il Times sia uscito a tutta pagina con il titolo «Le lezioni di Lawrence d’Arabia sulla guerra in Irak» e che negli Stati Uniti I sette pilastri della saggezza sia divenuta una lettura obbligatoria nelle scuole militari. Letta allora con gli occhi dell’attualità, la seconda parte della sua vita, quella nascosta, quella segreta, lascia da parte gli elementi caratteriali, la stanchezza, il desiderio di quiete e di anonimato, la volontà di farla finita con un’immagine troppo pesante da sopportare e troppo difficile da mantenere, e riporta in primo piano il ruolo che in quella decisione ebbe la consapevolezza di avere comunque tradito le speranze di chi con lui aveva combattuto perché di lui si era fidato. «Quando raggiungemmo il nostro scopo e albeggiava il nuovo mondo i vecchi uomini vennero di nuovo allo scoperto e presero le nostre vittorie per rimodellarle sull’antico mondo che conoscevano. La giovinezza poteva vincere ma non aveva imparato a resistere: ed era pietosamente debole contro l’esperienza. Balbettammo che avevamo lavorato per un nuovo paradiso e una nuova terra, loro ringraziarono graziosamente e fecero la loro pace». Nella spartizione dell’impero ottomano le promesse non mantenute, i nuovi protettorati ritagliati frettolosamente sulle carte geografiche, gli interessi inglesi e francesi posero le basi per un’instabilità mediorientale che ciclicamente avrebbe trasformato quei territori in elemento di conflitto, in occasione di lotta.
Tre citazioni che campeggiano nelle sale della mostra aiutano ulteriormente a spiegare il perché di un revival e di un interesse. Le prime due recitano: «Gli eserciti sono come piante, immobili, ben radicate, nutrite attraverso lunghi gambi sino alla cima. La guerriglia è come un vapore». «La guerra contro l’insurrezione è lenta e inutile, come mangiare il brodo con un coltello». La terza, celebre, letta in questa ottica di contemporaneità, suona terribile nel ricordare come il potere della speranza e dell’immaginazione renda gli uomini pericolosi: «Tutti sogniamo, ma non allo stesso modo.

Quelli che sognano di notte nei polverosi nascondigli della mente, si svegliano al mattino per accorgersi che tutto era illusione. Ma i sognatori di giorno sono uomini pericolosi, perché lo fanno ad occhi aperti per trasformare il loro sogno in realtà».

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