Cultura e Spettacoli

Leo, Curzio, Indro e Giovannino I film girati con la mano destra

Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia

Leo, Curzio, Indro e Giovannino I film girati con la mano destra

I l grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze.

I loro film ( Dieci minuti di vita , Cristo proibito , I sogni muoiono all'alba e La Rabbia ) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film?

Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita . Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis ) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema.

Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano , la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...

La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini.

Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere.

Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare.

Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti ( La pelle e Kaputt ), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta.

Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba , realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli.

Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa.

Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba , il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti.

L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche.

Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino».

Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile.

Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.

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