Controcultura

La lezione del ribelle normale

La lezione del ribelle normale

Al Montanelli molte cose funzionavano esattamente come in altre scuole. Le avevano soltanto chiamate con nomi diversi, forse per farle sembrare meno minacciose, ma bisognava comunque mantenersi in buoni rapporti con tutti gli insegnanti e non fare commenti su nulla. Una pagella, ad esempio, non si chiamava semplicemente pagella, ma scheda. Non ti davano voti, ma valutazioni. Una valutazione non aveva nulla di diverso rispetto a un voto: anche il primo analfabeta avrebbe capito che un sufficiente corrispondeva a un sei, un più che sufficiente a un sette, un buono a un otto, un ottimo a un nove e un eccellente, ovvio, a un dieci. Sotto il sei c'erano l'insufficiente, l'insufficiente grave e il pessimo. Altre variazioni non mi pare ci fossero, in quell'area in cui in ogni caso eri andato di merda.

Se si fossero fermati ai sufficienti e agli insufficienti forse avresti anche potuto riderci su, ma le valutazioni erano sempre seguite da una manciata di frasi con cui l'insegnante esprimeva il suo parere sull'alunno in questione, e spesso nel mio caso non c'era scritto niente di bello. A volte esitavo per settimane prima di mostrare una scheda ai miei. Come avrei preferito prendermi un semplice tre! Non avrei avuto il minimo problema a confessarlo. Lì, però, c'erano frasi che recitavano testualmente: «Il suo atteggiamento negativo danneggia l'atmosfera della classe...» e: «Non partecipa a nessuna attività e trascina in basso gli altri...». Oppure: «Potrebbe ottenere risultati molto migliori se smettesse di ribellarsi a tutto...». Un atteggiamento negativo! Non lo dicevano quasi mai apertamente, non scrivevano mai: «Vostro figlio ci sta così sulle palle che vorremmo tanto vederlo fare una caduta mortale al più presto...». No, c'era come una tensione tra le righe per cui ciascuno poteva trarre le sue conclusioni, molte volte era peggio di un oroscopo su un giornale, potevi interpretare quello che leggevi in qualsiasi modo. I miei dovevano pensare di avere in casa una specie di caso psichiatrico quando scorrevano le mie schede. Qua e là, infatti, i professori mi davano anche un più che sufficiente, non potevano evitarlo, ma poi facevano intendere senza tanti giri di parole che ero comunque senza speranza. «Gli stiamo prolungando la vita con dei farmaci, ma prima o poi morirà in ogni caso», questo era il succo. Allora è meglio un sette, no?

Trovo anch'io che i voti nudi e crudi dicano poco su chi sia davvero una persona, ma non c'è nemmeno bisogno di farselo spiegare da un insegnante. Il fatto che siano potuti diventare insegnanti non significa che capiscano qualcosa. «Chiunque abbia anche solo un minimo di personalità non si mette a insegnare» ha detto una volta il padre di Erik. «Personalità e insegnamento non vanno mai d'accordo, sono due linee parallele». Ci sono eccezioni a questa regola, bisogna dirlo, ma è come per una cometa: vola sola attraverso l'universo sconfinato passando vicino alla terra una volta ogni ottant'anni, e tu hai fortuna se ne vedi una. Per il resto sono tutti coglionazzi mediocri che sarebbero voluti arrivare più in alto, ma sono rimasti intrappolati fino al collo nelle sabbie mobili dell'insegnamento.

Al Montanelli si aggiungeva poi il fatto che erano convinti di aver concepito davvero la scuola più bella del mondo. Questo era l'aspetto peggiore di tutti. In una scuola normale se non altro avresti potuto pensare che non dipendesse soltanto da te, mentre il Montanelli si piaceva così tanto che se non eri d'accordo eri un pazzo e basta. Secondo me ci si deve poter ribellare almeno a qualcosa. Se altri hanno deciso al posto tuo cosa ti deve piacere, allora non puoi proprio più respirare, o respiri l'aria di seconda mano delle persone che sanno esattamente cosa è bene per te, e quelli sono i tipi più spaventosi che esistano. Per anni mi sono sentito in colpa perché avrei preferito essere da tutt'altra parte che al Liceo Montanelli. «Si può sapere a cos'è che ti ribelli tanto?» mi ha chiesto una volta Van Baalen, il professore di olandese, dopo avermi preso da parte. Credevo che mi avrebbe fatto il mazzo, non so più cosa avessi combinato, ma anche quando combinavi qualcosa ti beccavi soltanto delle domande così, smielate, che non sapevano né di carne né di pesce. Amavano mettersi lì a psicoanalizzarti per bene, ne andavano matti. Tutta la vita era psichica al Montanelli, se non stavi attento. Già, a cosa mi ribellavo? Una risposta non gliel'ho data. Vedendo la faccia gentile, sorridente e comprensiva di Van Baalen, ti rendevi subito conto che avresti fatto prima a spiegare al papa che Dio non esisteva, tanto ce l'avevano ficcato in testa, quelli lì, che con il Liceo Montanelli avevano saputo realizzare né più né meno che il cielo in terra. «Tu preferiresti frequentare una scuola tradizionale, vero?». Spesso chiedevano anche questo, con un'inflessione minacciosa per cui sembrava che una scuola tradizionale fosse peggio di un campo di concentramento. Certo che non volevi frequentare una scuola tradizionale, ma allora cosa volevi? Non c'era margine per non volere niente di niente, perché sennò iniziavano a menartela con la storia dell'atteggiamento negativo, mentre io credo che uno dei pilastri della libertà sia, diciamo così, la facoltà di non scegliere una volta tanto fra tutte le possibilità che il mondo ha previsto per te anche se tu non hai chiesto nulla.

© Neri Pozza Editore, Vicenza

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