Controcultura

La Liberazione vista dai (veri) liberatori

Lo sforzo bellico alleato fu enorme ma è ancora nascosto da certi storici

La Liberazione vista dai (veri) liberatori

La liberazione dell'Italia dalle truppe nazifasciste viene festeggiata il 25 aprile. Il giorno in cui, nel 1945, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) comando centrale a Milano proclamò l'insurrezione generale nei territori ancora occupati dai nazifascisti, indicando a tutte le forze partigiane di attaccare presidi e reparti nemici. Le date che commemorano le vittorie militari, si sa, sono spesso simboliche. In questo caso più di altre: si continuò tristemente a combattere sino al 2 maggio sul territorio italiano.

La data del 25 aprile piacque perché l'idea dell'insurrezione generale dava l'idea di un'Italia che sua sponte e con i suoi mezzi si liberava degli occupanti. Niente di male, quando venne emanato il primo decreto legislativo luogotenenziale (il 22 aprile 1946, su proposta di Alcide De Gasperi) serviva una festa che marcasse il nostro contributo da cobelligeranti, visto che dei cobelligeranti sono una cosa ben diversa da degli alleati veri. L'Italia aveva una comprensibile voglia di staccare le sue sorti da quelle del fascismo. Alla fine, però, quella scelta politica si trasformò anche in una falsificazione storica. Si iniziò a parlare quasi solo di vittoria partigiana e si finì per mettere sotto il tappeto l'enorme sproporzione tra il contributo Anglo-Franco-Americano e quello delle forze partigiane. Ci sono voluti decenni per iniziare a scalfire questa narrazione auto assolutoria e romanzesca. Però studi recenti - come quello di Pier Paolo Battistelli e Piero Crociani La guerra partigiana in Italia. Una storia militare (Leg)- ci hanno messo davanti a numeri molto chiari: nel dicembre del '43, nonostante l'afflusso dei renitenti alla leva della Rsi, le forze partigiane erano stimabili attorno alle 10mila unità, non tutte combattenti. Giusto per fare il paragone, nello stesso periodo il Primo Raggruppamento Motorizzato italiano, il nucleo iniziale dell'esercito del Sud, contava 5mila uomini, eppure del contributo dei militari regolari alla Liberazione si è parlato molto meno (a fine conflitto erano circa 60mila in prima linea). All'aprile del 1944 le forze partigiane erano cresciute solo sino «una forza stimata di 13.500 unità, delle quali il 48% era costituito dai comunisti, ma che includeva anche importanti formazioni di indipendenti e di Giustizia e libertà (rispettivamente il 28 e il 21%)». Gli attacchi di queste forze difficilmente avevano effetti consistenti, erano fastidiose punture di spillo nelle retrovie germaniche.

La situazione cambiò nell'estate del 1944. I tedeschi sembravano alle corde e le truppe partigiane schizzarono a 50mila combattenti e 20mila fiancheggiatori. Però era un fuoco di paglia, i tedeschi erano ancora dotati di forza di reazione notevole. La maggior parte delle forze partigiane venne semplicemente annientata durante il durissimo inverno. Certo a marzo del '45 i combattenti crebbero improvvisamente a 80mila, ad aprile raggiunsero i 130mila anche se di essi solo 70mila armati. Ma, a quel punto, lo scontro era già vinto.

Per dare l'idea della disparità rispetto allo sforzo portato avanti dagli Alleati, per consolidare la testa di ponte di Salerno utilizzarono circa 170mila uomini suddivisi in sette divisioni e per lo sfortunato sbarco di Anzio impegnarono 50mila uomini e 5mila veicoli. Il solo contingente della Francia Libera contava 113mila uomini. Questa enorme sproporzione si riflette anche nelle perdite subite. Le stime più alte sulle perdite partigiane le pongono attorno alle 54mila unità, altre fonti parlano di 7581 caduti in combattimento e di 23662 altri caduti causati dalle rappresaglie. Gli Alleati (escludendo la conquista della Sicilia) hanno avuto 313mila perdite tra morti, feriti, dispersi e prigionieri. Gli americani ebbero 32mila morti, le forze del Commonwealth 45mila, i francesi 7mila e 800 caduti, il contingente polacco quasi 4mila, il piccolo contingente brasiliano (25mila uomini totali) ebbe 465 caduti.

È stupefacente che questo enorme sforzo militare venga ancora messo sotto il tappeto. Sono pochissimi i libri tradotti in italiano che raccontano la Campagna d'Italia raccontando l'epopea degli alleati. Spicca, ad esempio, il recentissimo l'Armata delle nevi (Piemme) di Peter Shelton che racconta della Decima divisione da montagna Usa, l'unica divisione dell'esercito americano addestrata per combattere su roccia. Nata dalla testardaggine di un gruppo di civili, appassionati sciatori, preoccupati che l'esercito non avesse un reparto specializzato per combattere sulla neve e contrastare dunque gli esperti tedeschi, la Decima è stata fondamentale per sfondare la Linea gotica sull'Appennino bolognese, e pagò un altissimo debito di sangue.

Tra gli studiosi italiani che invece si stanno impegnando a raccontare il costo di sangue e l'enorme sforzo spicca il professor Gianni Donno che ha pubblicato una quadrilogia intitolata Welcome to the liberators. From the Gothic Line to the Po Valley. La lunga strada della liberazione alleata (Pensa).

Donno sta lavorando con due ricercatrici, Loredana Pellé Stani e Emanuela Primiceri su altri tre volumi, uno sullo sbarco di Salerno, uno sui combattimenti lungo il fiume Volturno e uno sulla battaglia di San Pietro Infine. I libri di Donno restituiscono al lettore i report delle divisioni Usa che raccontano passo passo l'avanzata, sanguinosa e dolorosa, delle truppe. Ci dice Donno: «Sono documenti diretti e molto crudi, danno l'idea del sacrificio compiuto da quegli uomini. Ora che non si può più parlare di vittoria della Resistenza è diventato di moda minimizzare l'impegno alleato in Italia. Si accusa il generale Mark Clark di aver portato avanti la sua avanzata con lentezza e di aver sbagliato ad insistere su Cassino... Ma gli americani e gli inglesi hanno dovuto spesso combattere casa per casa, con un nemico fanatizzato che resisteva sino allo stremo, in attesa delle armi segrete promesse da Hitler». E in effetti i report proposti da Donno, che li ha messi assieme con pazienza certosina, da quando sono stati resi disponibili negli Usa, descrivono la durezza dello scontro. Spiega Donno: «A partire dallo Sbarco a Salerno, fu durissima. Lo sbarco riuscì anche perché il 151° battaglione di artiglieria si mise a far fuoco ad alzo zero contro il contrattacco dei corazzati tedeschi. Ad un certo punto c'era un generale che si mise a fare da servente a un pezzo perché il servente era morto». Ed era solo l'inizio. Ecco alcuni stralci dei report del 133esimo reggimento di fanteria Usa che combatteva nella zona di Barberino del Mugello. 11 settembre mentre gli americani avanzavano verso il passo della Futa: «Quattro vittime colpite dal fuoco di mortaio del nemico. Ore 18 fuoco di cecchini e di mitragliatrici... ore 18,15 fuoco di mitragliatrici dal settore dal punto 739937». Il 12 settembre: «ore 10,15 il secondo Battaglione incappò in un campo minato protetto dal fuoco di mitragliatrici e soffrì quattro vittime...». Basta questo a far capire che, come sempre racconta Donno: «Chi lamenta la lentezza dell'avanzata degli alleati non sa di cosa parla, lo scontro sulla Linea Gotica fu durissimo. E quanto al fatto che gli americani spesso distruggessero casolari e paesini, usare l'artiglieria era l'unico modo di snidare i tedeschi. Già così da dicembre ad agosto 1944, l'avanzata gli costava 50 morti al giorno».

Uno stillicidio proseguito sino all'ultimo grande scontro coi tedeschi, il 27 aprile 1945 a San Pietro in Cerro. Due giorni dopo la festa della liberazione un robusto reparto tedesco contrattacca gli americani avanzanti, 1500 uomini contro 600 che si trovarono bloccati nel Paese. La situazione del 133esimo Reggimento Fanteria era questa: «Fu inviata una richiesta di rinforzi, insieme con una richiesta urgente di carri armati. In risposta il comandante del Reggimento inviò la compagnia S, formata da 121 uomini raccolti in fretta dal settore sussistenza, cucine, e personale d'ufficio del reggimento». Questi uomini aiutati da soli 5 carri leggeri riuscirono a rovesciare le sorti della battaglia.

Potremmo dire, con un po' di polemica, spostiamo i festeggiamenti al 27 aprile.

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