Lotta a «quant’altro», tic verbale fintamente chic

Egregio dottor Granzotto, gradirei conoscere il suo parere in merito a un linguaggio giornalistico (e non solo) che a me sembra a dir poco «deviante». Le farò due esempi. 1) L’altra sera il Tg5 dava notizia di una donna uccisa a coltellate per strada e davanti a numerosi testimoni; l’uomo che ha compiuto il delitto è stato definito «presunto assassino». Non sarebbe giusto definirlo per quel che è? Dove sta secondo lei la presunzione della colpa? Forse nell’attesa della condanna? E ci possono essere dubbi su di essa, quando il reato è commesso davanti a tanta gente? C’è anche la probabilità che quell’uomo abbia ucciso alcuni mesi fa un’altra donna: in tal caso è giusto definirlo «sospetto», perché la colpevolezza dovrà essere dimostrata. 2) Quando vien data notizia di un omicidio compiuto da malavitosi o terroristi è giusto usare il verbo «giustiziare»? Ci faccia caso: avviene spesso che dicano della vittima «è stato giustiziato» non «assassinato» o «ucciso» (talvolta «massacrato»). Di «quant’altro» cosa può dirmi? A me ogni volta che lo sento viene la pelle d’oca. Ma non sarebbe più corretto dire «ogni altra cosa»? Visto che non l’ho trovato in nessun dizionario evidentemente è un neologismo: ma chi l’ha usato per la prima volta? Passando a un altro argomento: ha fatto caso all’abuso del verbo «andare» da parte dei cuochi, quando illustrano la preparazione di una pietanza? Dicono spessissimo e quasi tutti: «andiamo a condire», «andiamo a infornare», «andiamo a impiattare» (?). Forse è il linguaggio tipico e specifico usato nelle scuole alberghiere? A me sembra a dir poco un malvezzo e a lei? Scusi se la disturbo con un argomento in apparenza futile, ferragostano, ma apprezzo la sua difesa della lingua italiana, per la correttezza delle espressioni: spero di ricevere da lei quanto richiesto.


Bastia Umbra


Vado veloce, caro Ascioti, per giungere subito al detestatissimo «quant’altro». Presunto innocente: sì, anche se colto con le mani nel sacco. Articolo 27 della Costituzione: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Giustiziare: il primo vocabolario della Crusca ne dà questo significato: «Uccidere i condannati dalla giustizia». Ma da allora (1612) il termine ha assunto un contenuto più vasto ed oggi vale «uccidere in esecuzione di una condanna a morte». Andare a condire, andare a infornare: non c’è peccato a esprimersi così. «Andare» seguito da «a» e da un infinito indica l’inizio dell’azione che il verbo all’infinito esprime (l’espressione «andiamo a vedere come finisce» immagino non la faccia rabbrividire come quell’«andiamo a impiattare» dove compare lo sconcio neologismo che sgangheratamente traspone la mise en plat della cuisine francese). E veniamo a «quant’altro».
Nel mio personale Guinness delle porcherie linguistiche «quant’altro» è attualmente in vetta alla classifica insieme all’altrettanto insopportabile «piuttosto che» in funzione disgiuntiva. «Quant’altro» non è neologismo: non lo trova così com’è nei dizionari perché sono due parole, «quanto» e «altro». Nasce e si diffonde negli anni Novanta dalle aule del Parlamento, dove operano tanti paglietta inclini al parlar sussiegoso, con la puzzetta sotto il naso. La formula, proprio per via della puzzetta, piacque e fu subito adottata dal giornalismo televisivo: da lì, l’epidemia. Così com’è, lasciato penzolone in fine di frase, «quant’altro» è anche un obbrobrio grammaticale (di riffa o di raffa trattasi di pronome relativo e indefinito e dovrebbe dar valore a due predicati, due verbi). Pertanto non ha senso, è solo un tic verbale che quanti vi ricorrono presumono colto, «di classe», chic. Mentre è soltanto banale e fessissimo.

Oltre che superfluo avendo noi a disposizione, da sempre, il perfetto, sintetico «eccetera». E noi eccetteristi, caro Ascioti, seguiteremo a condurre lotta spietata ai quant’altristi servendoci di tutte le armi a disposizione, ivi compreso il micidiale pernacchio.
Paolo Granzotto

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