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L'università dei nuovi pro(f)letari

L'università dei nuovi pro(f)letari

Quattro corsi diversi, tenuti insieme saltando da un ateneo all'altro e incastrando nel frattempo lavori che con il mondo accademico hanno poco a che fare. È la vita che nel nostro Paese svolgono regolarmente migliaia di insegnanti universitari precari. Sono definiti «a contratto» perché vengono pagati a cottimo, ovvero in base alle ore effettive di insegnamento. Se va bene, portano a casa non più di 10mila euro lordi l'anno. Meno di mille al mese.

Secondo una nuova indagine condotta dalla Rete dei precari della ricerca e della didattica di Flc-Cgil, in Italia questi docenti senza ruolo hanno raggiunto la cifra record di 26.869. Insieme con i ricercatori assegnisti compongono un esercito di circa 40mila accademici precari, a fronte di quasi 33mila stabilizzati fra docenti associati e ordinari. Nonostante condizioni di lavoro e salariali disastrose, sono loro a tenere in piedi le università italiane. «Nel nostro Paese è in atto il blocco del turn over dal 2008. Gli atenei non hanno le risorse per assumere e così offrono cattedre a contratto - conferma Barbara Gruning, del coordinamento nazionale precari Flc-Cgil -. Negli ultimi dieci anni sono state perse 15mila posizioni di ruolo, compensate da meno tremila nuove assunzioni. Questo perché i finanziamenti ordinari all'università sono diminuiti di oltre un miliardo di euro».

COME UNA COLF

In questa situazione, per offrire un numero adeguato di corsi, gli atenei sono costretti a chiamare figure esterne. A confermarlo sono i nuovi dati resi noti dal Miur e relativi al 2017. Il numero dei non stabilizzati è cresciuto dell'11,7 per cento rispetto al 2016, con ben tremila docenti senza ruolo in più al lavoro nelle università di tutto il Paese. Se nel 1998 questi insegnanti «di serie B» erano 16.274, nel 2017 sono saliti a oltre 26mila, a fronte di 32.917 strutturati, ovvero regolarmente assunti dagli atenei. Fino a pochi anni fa i docenti a contratto erano quasi esclusivamente professionisti considerati luminari nei rispettivi settori, che offrivano le proprie competenze anche agli studenti in cambio di un compenso adeguato. Oggi sono invece, per la maggior parte, giovani con in tasca un dottorato, decine di pubblicazioni scientifiche e il sogno di inserirsi nel mondo accademico. A differenza dei professionisti impegnati in altri lavori, loro prestano il proprio tempo quasi esclusivamente nelle università, ricevendo in cambio stipendi da fame. Ognuno di loro guadagna fra 25 e cento euro lordi all'ora, in base ai bandi pubblicati dai diversi atenei. In media la cifra più comunemente pattuita è di 30 euro lordi. Ma questi soldi vengono riconosciuti solo per il tempo effettivamente dedicato ai corsi, senza tenere conto di quanto ci vuole per preparare una lezione, seguire uno studente, incontrarlo quando deve preparare la tesi o nelle ordinarie ore di ricevimento.

Facendo due conti, la Flc-Cgil ha calcolato che, in base al lavoro effettivamente svolto, i docenti precari guadagnano appena sette euro netti all'ora. Meno della maggior parte delle colf e delle babysitter attive nel nostro Paese.

«Il vero problema, in Italia, è stata l'incapacità di riformare il vecchio sistema di reclutamento - spiega Claudio Lucifora, docente di economia politica all'università Cattolica di Milano -. Oggi chi voglia tentare la carriera universitaria deve accettare condizioni di lavoro estremamente precarie almeno fino a 40 anni. Invece all'estero è tutto molto più semplice perché gli atenei possono assumere senza concorso, quando ne hanno bisogno, attraverso ordinari colloqui di lavoro. Il mercato libero facilita l'ingresso ed esalta il merito».

Nel frattempo il nostro Paese resta fermo, ancorato ai vecchi schemi. Alimentando così l'esercito dei precari.

GIOVANI E SECCHIONI

Si tratta quasi sempre di giovani fra 25 e 45 anni, con almeno un dottorato di ricerca nel curriculum e una lunghissima lista di pubblicazioni scientifiche. A loro i dipartimenti affidano non soltanto corsi di nicchia, ma anche lezioni in materie fondamentali. «Questi precari vantano profili accademici elevatissimi, ma nella maggior parte dei casi non riescono a guadagnare più di mille euro al mese - prosegue Gruning -. Sono giovani che hanno deciso di restare in Italia, o che ci sono tornati dopo avere maturato esperienze all'estero. Grazie al loro impegno, a un fenomeno che abbiamo definito autosfruttamento, riescono a mantenere alto il livello dell'insegnamento nonostante tutto. Lo fanno pregiudicando la qualità della propria vita privata. Mettendo sempre al primo posto gli impegni professionali». E accettando uno squilibrio fortissimo rispetto ai propri colleghi di ruolo. In termini economici, ma anche quantitativi. Basti pensare che attualmente i docenti associati e ordinari più i ricercatori di tipo «B», che hanno la strada avviata per la docenza, sono 50.020. Invece i ricercatori a tempo determinato, gli insegnanti precari, i borsisti post-laurea e gli assegnisti di ricerca sono 63.244. Fra loro solo il due per cento ogni anno ha la speranza di entrare.

POVERO SUD

Nel frattempo cercano di andare avanti accumulando più corsi, pubblicando saggi, partecipando a convegni o facendo piccoli lavori che con l'insegnamento universitario non hanno nulla a che fare. E questo non solo negli atenei pubblici. Perché anche quelli privati negli ultimi anni hanno incominciato ad abusare di questo sistema, in modo da contenere i costi. «La cosa più grave è che spesso le università non conoscono i numeri, non sanno effettivamente quanti docenti a contratto ci siano perché il loro reclutamento dipende dai singoli dipartimenti», va avanti Gianluca De Angelis, uno degli autori della ricerca. «Non pensiamo sia sbagliato affidare a figure esterne alcuni corsi, ma è assurdo reclutare docenti a contratto per materie basilari. Sfruttandoli a fronte di salari minimi. Perché la didattica dovrebbe essere garantita da un lavoro che sia esso stesso garantito».

Invece così non è, specialmente negli atenei meridionali. Dalla ricerca emerge infatti che l'83,2 per cento dei precari, nelle università del Sud, sono impiegati in corsi curriculari. A fronte del 78,5 per cento del Centro e del 73,4 per cento del Nord. La maggior parte del loro tempo viene utilizzata per preparare le lezioni, raggiungere il posto di lavoro, presenziare agli esami, ricevere gli studenti, seguire i laureandi nella preparazione della tesi. Tutte mansioni che non vengono retribuite. Solo il 18,2 per cento dell'orario di lavoro riguarda le lezioni frontali, per le quali i precari ricevono un compenso. Che, mediamente, non supera i 38 euro lordi all'ora. Cifra che può scendere fino a 25 euro lordi negli atenei delle isole e del Sud. «Abbiamo chiesto interventi immediati e concreti al ministero - conclude De Angelis -. Nel frattempo siamo costretti a constatare che i precari italiani si sono assuefatti a queste condizioni. C'è quasi la convinzione che sia normale lavorare in questo modo.

Una deriva alla quale è assolutamente necessario mettere un argine».

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