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Luzzara fece felice Cremona con quei 12 milioni in sospeso

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Luzzara fece felice Cremona con quei 12 milioni in sospeso

Tony Damascelli

Tutto per merito dei lampioni. Domenico Luzzara aveva messo su con la sua ditta l’impianto di illuminazione dello stadio Zini, c’erano 12 milioni di lire da pagare e la Cremonese ritardava, ritardava ancora e sempre, torni la prossima settimana, ci rivediamo tra un mese, cerchi di capire. Menico, come lo chiamavano tutti, capì che era arrivato il tempo di un cambio merce, si riprese le lampadine, le torri, i fari e, assieme, tutta la Cremonese. Suo figlio Attilio lo avrebbe convinto nel grande passo, anche la presidenza da lì ai successivi trentaquattro anni. Una vita, una fetta grande della storia calcistica della città di Vialli e Cofferati, Tognazzi e Stradivari, il torrone e il Foro Boario, proprio dietro lo stadio quasi a dire, qui c’è il mercato, là lo spasso, sempre di affari trattasi.
Menico Luzzara così per l’appunto era fatto, con la sua voce un po’ raschiata, gli occhiali di vetro sfumato, secondo moda dei nostri padri, le bretelle e il sorriso, con un paio di denti in oro, da regalare a chiunque gli si fosse presentato davanti, amici e rivali. Aveva il cuore come la corda del violino, ogni tanto il suono era stridulo, Menico diventava prima paonazzo poi color della nebbia cremonese. Un giorno lo ricoverarono proprio durante una partita che la sua squadra stava giocando a Pavia: «Fu una fortuna, perché a Pavia c’è un ospedale magnifico, con un defribillatore quasi inedito per quel tempo».
La fortuna di seguire il pallone, di vivere in mezzo alla gente, perché lui, in fondo, era nato, in quel primo giorno di dicembre del Ventidue, proprio in mezzo all’alveare, in un’osteria, i Tre Arlecchini, in via Belfiore a Cremona. Non per parto casuale, i suoi erano i titolari e Menico ogni tanto ricordava l’adolescenza passata a dar via gazose e vino, qualche fetta di salame, cosa che avrebbe fatto anche negli anni maturi e dorati della Cremonese, un prosciutto ai giornalisti amici, cioè tutti, e una battuta in dialetto. Erano quelle le eredità della breve e divertente carriera teatrale. Beh, meglio sarebbe dire di goliardia, insieme con gli amici, a cantare, imitare , tra i teatranti arrivò anche l’Ugo, cioè Tognazzi che non si era fatto ancora l’amante (il Milan) ed era fedelissimo alla moglie (la Cremonese). Bella la vita, dunque, per il ragionier Domenico Luzzara che per poco sfiorò il campo di concentramento. Con i suoi amici avevano un appuntamento a Orte, Menico era in ritardo, cosa consueta, il treno partì e lui restò a terra. Gli altri furono deportati. Lui, libero, salvo. Lavorava al Consorzio agrario, come capo ammasso fieno, non faceva tendenza ma faceva denaro, gli venne proposto di andare in fabbrica, quella elettromeccanica che si comprò, con la squadra di pallone; affari buoni dovunque, Napoli, Grecia, Urss, Emirati Arabi. Era piccolo, Menico, ma di capa grossa e fina, sembrava l’ultimo dei presidenti del football e di sicuro è stato l’ultimo vero presidente di un football che più non esiste. Ha costruito un presepe, la Cremonese, con tutte le sue statuine, da Vialli a Cabrini, da Attilio Lombardo a Garzilli: «Non è stato difficile vendere Vialli alla Sampdoria, moltissimo invece Garzilli all’Avellino». Era affezionato ai suoi calciatori come un padre ai figli, era affetto vero, non peloso o di circostanza. «Lasciatemi perdere», disse dopo una delle sconfitte della Cremonese. Lo sfogo si trasformò in una battuta, la Cremonese fu lasciata perdere tutte, o quasi, le partite, scivolando, in serie B. Erano giorni allegri, anche se il cuore ogni tanto tornava ad assottigliarsi come la corda del violino. Guardando in alto, allo stadio Giovanni Zini, in via Persico, vedevi le torri con i fari dell’illuminazione. Ripensavi ai 12 milioni in sospeso che hanno cambiato la vita di una squadra. E del commendatore ragionier Domenico Luzzara.

La luce si è spenta.

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