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Marchisio alla Tardelli? Operazione nostalgia su presente e futuro Juve

Marchisio non è Tardelli. Così come la Juventus di Conte non c'entra nulla con la Juventus di Lippi. Paragoni facili, giochetti infantili, figurine da scambio ma la verità è diversa.
Claudio Marchisio è un ragazzo della borghesia piemontese, viene da Chieri che sta appena sulla collina torinese, è la terra del ghersin robatà, del grissino arrotolato, come la corsa nervosa dello juventino. Marchisio non è costato nemmeno un centesimo alla Juventus, a sette anni già vestiva i colori, giocando con i pulcini bianconeri. Ha mangiato brioche e pallone osservando gli eroi delle sue figurine, sentendone la voce negli spogliatoi, Zidane e Nedved, Del Piero e Ibrahimovic, Thuram e Cannavaro. Su di lui ha vinto la scommessa uno che, soltanto a nominarlo oggi, provoca risate e sfottò: Gian Piero Gasperini. Era l'allenatore delle giovanili bianconere, individuò il talento del ragazzo, inserendolo, nonostante l'età precoce, nella formazione Primavera della Juventus, consegnandolo poi ai quadri della prima squadra. Se non ci fosse stata l'estate violenta di calciopoli, con la transumanza di alcuni dei suddetti mattatori e altre defezioni, Marchisio avrebbe continuato, forse, a spazzolare le scarpe da gioco e a guardare la Juventus da tifoso e da giovane promessa. Lo mandarono a Empoli per imparare che la vita di un calciatore non è soltanto la gloria di appartenenza a un grande club o la residenza e il domicilio comodi, gli preferirono, nel frattempo, operai di centrocampo però pagati come architetti.
Un anno fu sufficiente per capire che il principino era di stoffa giusta. Sapeva calciare e con potenza, il fisico asciutto non gli impediva contrasti energici, la voglia di fare lo portava ovunque sul campo, era Figaro in soccorso dei sodali di squadra. Marchisio oggi è questo: svolge le tre funzioni del calciatore moderno: difesa, mediana, attacco. È rimasto coinvolto, con gravi intossicazioni, nei maldestri disegni tattici dei predecessori di Conte che lo avevano spostato a destra, a sinistra, togliendolo dalla cucina centrale, dove il campo ha spazio e luce, indispensabili per un calciatore con le sue caratteristiche. Oggi, con Antonio Conte, ha raggiunto una maturazione completa, è il presente e il futuro della Juventus e della nazionale, venticinque anni è l'età giusta per rappresentare il punto di riferimento del gruppo anche se non sembra possedere il carisma del leader, l'impudenza di Tardelli al quale viene avvicinato con fretta e nostalgia romantica. Rispetto all'ex campione del mondo ha un tratto di gioco meno prepotente, Tardelli a ventuno anni era già riconoscibile e riconosciuto, Marchisio a venticinque è sulla strada della fama definitiva anche se gli manca, per responsabilità non sue ma della squadra fuori dai salotti più importanti, l'illustrazione internazionale che Tardelli ottenne immediatamente, con il mondiale argentino a ventitre anni, due scudetti e una coppa Uefa (con un suo gol di testa nella finale di andata al Bilbao) già alle spalle.
Il parallelo fra i due nasce per la maglia, il ruolo, il numero di gol, una certa rassomiglianza, di forma più che di sostanza. Claudio Marchisio, rispetto a Tardelli, non ha la stessa fame antica, lo stesso cinismo anche se è stato al centro di una vicenda sgradevole: è finito sui siti il filmato che lo riprendeva mentre offendeva l'inno di Mameli, seguì smentita e riappacificazione tricolore.
Marco Tardelli, era Schizzo, non Principino, toscano di lucchesia, affamato di vita e di pallone, cameriere e poi calciatore, tuttofare dunque, ragazzo di corsa e di astuzia. Arrivò alla Juventus dal Como di Tragni, Giancarlo Beltrami, direttore sportivo del Como, pronosticò a Boniperti: «Presidente, fra due anni sarà in nazionale». Si sbagliò: Tardelli entrò in azzurro subito. Aveva ventuno anni, la Juventus lo pagò meno di un miliardo soffiandolo all'Inter, guarda le combinazioni, Fraizzoli offriva meno soldi e il difensore Guida che a Beltrami e a Tragni non interessava affatto. A ventuno anni Schizzo aveva già dimostrato tutto, quasi tutto: sapeva giocare da difensore, in un Como-Verona ferroso, per un'ora e mezzo stette sulle costole a Zigoni detto Zigo-Zago, non gli fece toccare pallone e prato, aveva spigoli e muscoli, correva con il carrello basso, aumentava la potenza e la velocità, in progressione. La sua faccia da schiaffi faceva prevedere una carriera giusta, Tardelli ribadì il talento universale, difensore, centrocampista, rifinitore, goleador all'occorrenza, con equa distribuzione: trentatre per cento di destro, altrettanto di sinistro e uguale cifra per i colpi di testa. Il carattere lo portava a non defilarsi mai, Gianni Rivera conobbe i suoi tacchetti al famoso pronti via di Juve-Milan, provocò allergie a Michel Platini, esibendo la medaglia mondiale all'enfant gâté sbarcato a Torino dopo Spagna '82, prese a male parole di persona Gianni Brera che aveva criticato eccessivamente la nazionale di quel mondiale durante il ritiro alla casa del Baron di Pontevedra.


Appartengono entrambi, Marchisio e Tardelli, alla stirpe del centrocampista classico, italiano, europeo, mondiale, tribù in via di estinzione sul campo disegnato come un calciobalilla.

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