Cultura e Spettacoli

MEGLIO LE ÉLITES DELLE MASSE

Èben nota la pessimistica e (ahimé) troppo azzeccata previsione che John M. Keynes (1883 - 1946) fece nel 1919 all’indomani della Conferenza di Versailles (alla quale aveva preso parte come membro della delegazione inglese): che le condizioni troppo dure imposte dalle potenze vincitrici alla Germania, configurando una pace cartaginese, avrebbero scatenato prima o poi un’altra guerra mondiale. Memorabile il ritratto impietoso che Keynes tracciò di Clemenceau, che di quella pace cartaginese fu il principale ispiratore: «Provava per la Francia ciò che Pericle provava per Atene... la Francia era il valore supremo, unico, e tutto il resto non contava: ma la sua teoria politica era quella di Bismarck».
I saggi e i pamphlet scritti fra il 1923 e il 1942 da John M. Keynes e ora raccolti sotto il titolo Sono un liberale? (Adelphi, pagg. 320, euro 22; a cura di Giorgio La Malfa) permette di ripensare la figura intellettuale di questo grande protagonista della cultura del Novecento (tra gli scritti, Le conseguenze economiche della pace, con cui nel 1919 prese le distanze dalle clausole del Trattato di Versailles, e Un breve sguardo alla Russia, resoconto di un viaggio compiuto in quel «pianeta avverso» nel 1925).
John M. Keynes rivendicò sempre, orgogliosamente, di essere un liberale. E tipicamente liberale era la sua profonda diffidenza per la «democrazia di massa» e per la partecipazione delle masse alla politica. La sua preoccupazione era che in una democrazia di massa i partiti devono conquistarsi il consenso degli elettori, e possono farlo solo promettendo di sostenere tutti i loro interessi, e, peggio ancora, assecondandone tutte le passioni. Di qui il pericolo costante di sacrificare una linea politica giusta a una linea demagogica, capace di attirare voti. Per Keynes, protagoniste della politica non dovevano essere le masse, bensì le élites intellettuali. «Io credo - egli diceva - che nel futuro, più che mai, le questioni che si porranno circa la struttura economica della società saranno di gran lunga le più importanti, tra quelle che toccano il piano della politica. Io credo che la giusta soluzione di questi problemi vedrà il coinvolgimento di intellettuali e di scienziati che devono trovarsi ben al di sopra della vasta e più o meno incolta moltitudine dei votanti».
E quanto Keynes fosse ostile a una trasformazione della società in senso dirigistico-collettivistico è dimostrato dal grande apprezzamento che egli mostrò per il libro di Friedrich von Hayek, La via della schiavitù. Dopo aver letto questo libro, Keynes scrisse al suo autore: «A mio pare è un gran libro. Noi tutti abbiamo il più grande motivo per esserle grati per aver detto così bene quello che era necessario dire. Non si aspetti che io accetti tutte le asserzioni in materia d’economia che sono presenti nel libro. Ma dal punto di vista morale e filosofico io mi sento virtualmente d'accordo con tutto il libro. E non solo d’accordo, ma di un accordo che nasce dal profondo».
E tuttavia, proprio fra Keynes e Hayek si aprì un duello intellettuale che doveva toccare punte di grandissima asprezza (anche se tra loro non venne mai meno la stima reciproca), perché riguardava scelte fondamentali relative al funzionamento della società moderna. Per Keynes (lo sostenne in un saggio famoso, Fine del laissez-faire) le dottrine ottocentesche basate sull’armonia naturale degli interessi privati e pubblici in un sistema economico basato sulla proprietà privata e sulla libertà del mercato, avevano fatto bancarotta. Le imponenti trasformazioni dell’economia internazionale, gli elevati e persistenti livelli di disoccupazione, le esigenze di un’equa distribuzione della ricchezza, i problemi della povertà e del benessere sociale, imponevano l’intervento dei governi nell’economia, non per sostituirsi alle attività dei privati, ma per fare tutte quelle cose che i privati non erano in grado di fare. Una visione, questa di Keynes, che Hayek respingeva assolutamente. Per lui l’economia di mercato era in grado, senza alcun intervento dello Stato, di aggiustare le oscillazioni della domanda. Keynes, secondo Hayek, proponeva una ricetta sbagliata, perché, dovendo fare un crescente ricorso al denaro pubblico per garantire i livelli di occupazione, tale ricetta avrebbe prodotto inflazione, e quindi avrebbe reso sempre più difficile e costoso il riequilibrio del sistema. Senza contare le negative conseguenze politiche di un tale rafforzamento del ruolo del governo e dello Stato.
Ma eminenti pensatori liberali si schierarono più dalla parte di Keynes che da quella di Hayek. Valga per tutti il caso di Raymond Aron, che riteneva assolutamente necessaria una certa dose di intervento dello Stato nell’economia, sia nei periodi di difficoltà e di crisi, sia per assicurare quel Welfare che egli considerava indispensabile ai fini del consenso nei regimi democratici (oltre che una grande conquista della civiltà europea).

Del resto, già nella prefazione (1954), a L’oppio degli intellettuali, Aron aveva affermato, con fine ironia, di essere «un keynesiano con qualche rimpianto per il liberalismo».

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