Roma

In memoria di un padre-padrone

Le atmosfere sono ispirate al lirismo crepuscolare dei quadri di Edward Hopper

Mimmo Di Marzio

«Le ultime ore di Henry Moss» è lo psicodramma di due fratelli, separati da un’infanzia nebulosa e ritrovatisi nella casa-rifugio del padre, che la morte ha appena strappato a un’esistenza di eccessi e dissolutezze. I giovani Earl e Ray, l’uno specchio dell’altro, iniziano un viaggio nella memoria e nel dolore, dove le immagini di un trauma familiare si mescolano al sogno in un crescendo di pathos, fino alla catarsi finale. Attorno ai due, tra realtà e continui flashback, si alternano personaggi surreali, il mondo a parte di Henry Moss, padre degenere il cui spettro è filo conduttore del dramma e al contempo soluzione dell’enigma psicologico. Nella prima nazionale dell’opera del drammaturgo americano Sam Shepard, da stasera al teatro Sala Uno fino al 30 ottobre, il regista napoletano Enrico Maria Lamanna mette in scena una tragedia contemporanea densa di simboli, dove il conflitto familiar-edipico di derivazione realistica che poggia le radici in Miller prima che in Ibsen e O’Neill, si scompone in un collage fatto di soliloqui lirici e grotteschi che sconfinano nell’epopea americana. Nell’alcova messicana del vecchio Moss sfilano infatti personaggi che incarnano un passato ancestrale lontano anni luce dal sogno americano, e che invece mette a nudo i fantasmi di un sadico colonialismo. Tra questi, l’amore ancillare dell’indiana Conchalla o l’atavica sottomissione dell’attendente Esteban, uso alle vessazioni del protagonista e che involontariamente provocherà l’incontro tra i due orfani, anch’essi cresciuti all’ombra della violenza paterna. Nel personaggio del defunto Moss, ben interpretato dal produttore Claudio Bonivento nelle inedite vesti di primo attore, sono condensate le tematiche e i valori della controcultura americana del dopoguerra, quella che attraverso il dramma familiare punta l’indice sulla responsabilità etica individuale e mette in crisi un sistema economico-sociale spietato e spersonalizzante.
Il paesaggio delle highway, la fuga verso il Sud, si perdono in un lirismo crepuscolare alla Edward Hopper dove il rapporto col territorio diventa regressione verso l’inconscio, perdita di sé, straniamento e incubo. L’angusto interno di provincia diventa quindi un tragico palcoscenico dove le gesta dei padri perdono completamente il loro «eroismo» e salgono sul banco degli imputati di un singolare processo all’America, non più espresso attraverso la critica sociale ma attraverso il sogno, l’ironia, la disgregazione del reale. Lo spettacolo di Lamanna è diviso in tre atti come nell’originale. «Nel primo - dice il regista - l’andamento è lento come lo scorrere delle paludi che circondano la casa di Henry Moss. E i due fratelli si incontrano, si annusano e si attaccano.

Poi, dopo la “scoperta”, il ritmo aumenta fino all’ultimo atto, quello del “riconoscimento”: qui le verità finalmente vengono a galla, i due fratelli si confrontano fino ad arrivare al colpo di scena, alla catarsi finale».

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