Cultura e Spettacoli

"La meritocrazia esiste ma solo nel calcio"

Roger Abravanel non ha dubbi: "Lì c'è vera concorrenza. Totti non raccomanderebbe mai suo cugino nel ruolo di terzino. E poi senza regole il merito non può nascere"

"La meritocrazia esiste ma solo nel calcio"

Roger Abravanel è una delle più autorevoli voci nel dibattito sulla meritocrazia. Sul tema ha scritto tre libri, il quarto è in arrivo a marzo: La ricreazione è finita (Rizzoli), e analizza le ragioni per cui la scuola italiana non prepara al lavoro, una delle cause più gravi della disoccupazione giovanile.

Non si sente controcorrente nel perorare la meritocrazia in un Paese dove la cultura del merito stenta ad attecchire?

«Ero controcorrente quando scrissi il primo libro. Anche solo otto anni fa, meritocrazia suonava come una brutta parola. Ora molta gente ne parla in senso positivo. C'è chi la critica, ma è la minoranza. L'atteggiamento è cambiato, questo è già un successo».

Si sta andando oltre la presa di coscienza? Al dibattito che azioni hanno fatto seguito?

«Non ci sono tante azioni, è vero, ma quelle poche mi rendono ottimista».

Per esempio?

«Il fatto che negli ultimi anni, sette milioni di studenti italiani abbiano avuto una valutazione standard su tutto il territorio. Alludo all'Invalsi, il test che misura le competenze degli studenti in modo oggettivo. Quando proposi, assieme ad altri, qualcosa di simile a Mariastella Gelmini, allora ministro dell'Istruzione, l'Invalsi era commissariato. È stato rilanciato, molte cose sono ancora da migliorare, ma un grande passo avanti è stato fatto».

Questa era una delle quattro proposte del suo primo libro. Le altre tre cosa hanno sortito?

«La seconda sollecitava una maggior presenza femminile nei Cda. Nel frattempo le quote rosa nei Cda italiani di imprese quotate è raddoppiata».

Quale proposta, invece, è caduta nel vuoto?

«Il progetto di far rispettare delle regole. Per questo scrissi il secondo saggio, Regole . La meritocrazia è competizione con regole chiare e giuste, se le regole non sono tali, il merito non può nascere».

E questo vale nel privato come nel pubblico dove ovviamente è più difficile.

«Quando identificai un modello concreto di meritocrazia in Mario Barbuto, allora presidente del tribunale di Torino, la storia ebbe tanta risonanza mediatica. Mario Barbuto nel 2001 aveva ridotto drasticamente i tempi della giustizia civile. Nel frattempo la sua carriera si è evoluta, è presidente della Corte d'appello di Torino. Ho proposto di estendere il miracolo di Torino all'intero Paese suggerendo come fare. Matteo Renzi ha letto i miei libri. Qualche mese fa ha chiamato Barbuto a Roma, lo ha posto come capo del Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria. In questi giorni, con Barbuto stiamo elaborando un progetto che sarà pronto per il primo trimestre dell'anno».

Qualche anticipazione?

«Misuriamo l'efficienza e produttività dei tribunali, segnaliamo i buoni e i cattivi, sulla base di questi dati elaboriamo statistiche per creare un senso di urgenza al Csm per il quale la meritocrazia nella magistratura non esiste».

Arriviamo all'ultimo libro, La ricreazione è finita.

«Parto da un'idea poco chiara oggi. I datori di lavoro italiani sono molto scontenti della formazione media dei giovani diplomati e laureati che ogni anno si presentano sul mercato del lavoro. Ma non perché non conoscono a fondo un mestiere, semmai perché non sanno lavorare in autonomia, risolvere problemi, comunicare. Cose che si dovrebbero imparare a scuola e all'università e che in qualche scuola e università italiana si imparano meglio che in altre. Per questo la scelta di una scuola è cruciale».

Il punto è conoscere quale sia la migliore. Come si misura il grado di efficienza di una scuola?

«Le migliori scuole sono quelle che hanno i migliori insegnanti, non si opta per una scuola che eccella per il livello di infrastrutture, qualità delle palestre, corsi di inglese o lavagne interattive... Non sono questi elementi a fare la differenza nella formazione di un ragazzo».

Chi è il buon insegnante del Duemila?

«Colui che sa insegnare a usare la testa e a dibattere. Sa applicare una didattica che non si limita alla lezione frontale, studio a casa e interrogazione. Uno dei criteri di misurazione del livello di una scuola è il test Invalsi. Sappiamo, però, che parte della classe insegnante non l'ha perfettamente metabolizzato... E pensi che la mia proposta sarebbe addirittura quella di replicare il test Invalsi alla fine del ciclo di studi di scuola superiore, usandolo dunque come uno dei criteri di selezione per l'università».

E la selezione per l'università?

«Nel mondo ci sono due modi per selezionare l'accesso all'università, quello europeo/asiatico e anglosassone. Il primo tiene conto della scuola di provenienza e del voto finale. Chi riceve un buon voto nelle migliori scuole entra più facilmente nelle migliori università. Quello anglosassone prevede un test standard alla maturità. In Italia abbiamo applicato il primo modello, ma ora non funziona più, l'esame di maturità non certifica più il merito dato che al sud ci sono il doppio dei 100 e lode che al nord. Ecco perché suggerisco il modello anglosassone con un test Invalsi alla maturità che sostituisca i test di ingresso alle università, che oggi sono un grave problema. Eliminarli tout court per la facoltà di medicina, come vuole fare l'attuale ministro, non è la soluzione giusta. La scuola italiana è scollegata dal mondo lavorativo perché non prepara le competenze che le aziende richiedono nel XXI secolo».

Possibile che non si faccia nulla per accorciare questa distanza?

«La disoccupazione giovanile, infatti, ha poco a che vedere con la crisi. La crisi acuisce il problema, ma il nodo cruciale è che i giovani non sono preparati per affrontare il mondo del lavoro».

La colpa è solo della scuola?

«La scuola e l'università hanno gravi responsabilità, perché non hanno interiorizzato il concetto che devono preparare al lavoro oltre che offrire una cultura di base. Ma le famiglie italiane hanno una grande responsabilità e sono diventate delle vere e proprie fabbriche di disoccupati».

In che modo?

«Imponendo scelte di studi che rispondono a proprie esperienze o ambizioni e non alle attitudini dei figli. Sbagliato anche il mantra per cui “prima si studia e poi si lavora” con il risultato che i diplomati e laureati italiani, oltre a essere i più vecchi d'Europa, non hanno una minima idea di come funziona un'azienda. Ci sono genitori che spingono i figli ad andare fuori corso per avere voti migliori, quando invece i datori di lavoro preferiscono un laureato con 98 in cinque anni a un 110 e lode in sette».

Anni fa le scuole scandinave erano le migliori. Lo sono ancora?

«Senza dubbio, ma oggi ci sono anche le tigri asiatiche, coreane-cinesi, e quelle europee, come le polacche. Tutte utilizzano una didattica orientata a insegnare le competenze descritte prima. Faccio un esempio. A studenti finlandesi di prima media è stato chiesto di risolvere un problema. Davanti alla scuola c'era un semaforo, e nonostante questo si verificavano continui incidenti. È stato chiesto di formulare proposte per risolvere il problema. I ragazzi hanno analizzato flussi di traffico, simulato alternative e poi hanno presentato al sindaco il progetto, che è stato applicato con successo. Poi c'è il caso Usa che dimostra come non sia la ricchezza a fare la differenza. Le scuole americane sono peggiori delle vietnamite, eppure hanno eccellenti università, per questo gli scandinavi amano dire che in Usa ci sono isole di eccellenza in un mare di ignoranza».

Cosa dice dei 150mila precari della scuola assunti poiché in lista d'attesa? L'attesa è di per sé un merito?

«Dopo queste assunzioni, il turnover è bloccato per almeno tre anni e si continuerà a non fare concorsi. Una volta di più si è pensato agli interessi dei docenti e non a quelli degli studenti».

Su tutto questo s'è confrontato col ministro dell'Istruzione?

«L'ultimo ministro con cui mi sono confrontato è stata la Gelmini. L'attuale ministro mi delude perché sta tentando di eliminare i test di ingresso a medicina. La scuola è un'azienda pubblica. E nel pubblico la meritocrazia fatica ad affermarsi più che nel privato».

In quali settori la cultura del merito è decollata?

«Il calcio. Prendiamo Totti: raccomanderebbe mai il cugino per fare il terzino? No, perché il livello di concorrenza e visibilità è altissimo e la Roma andrebbe in serie B. La meritocrazia è più sentita laddove c'è concorrenza giusta».

Dove non si sente?

«Sicuramente nel settore pubblico perché non si può cambiare ufficio comunale per farsi rilasciare la carta di identità o tribunale per avere una giustizia migliore».

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