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La metamorfosi dei carcerati è tutta merito di una colomba

Viaggio nel laboratorio di pasticceria del penitenziario di Padova che sforna dolci premiati dagli chef. E le statistiche dicono che chi lavora non torna più dietro le sbarre

La metamorfosi dei carcerati è tutta merito di una colomba

nostro inviato a Padova

Il conto dei cancelli richiusi alle spalle si perde presto in un carcere di massima sicurezza come il Due Palazzi. L'aria cupa si dirada solo quando s'imbocca il corridoio che porta nel braccio dove si lavora. Le pareti sono coperte di gigantesche riproduzioni di capolavori della pittura, realizzate nell'ambito di un progetto di educazione all'arte. Il penultimo, forse non a caso, è l'Icaro di Matisse: una figura umana nera protesa verso il cielo stellato in cui spicca il punto rosso del cuore. Un desiderio di libertà senza sole, proprio come in cella.

Un ultimo varco di controllo e si accede all'area operativa vera e propria. Sugli stipiti d'accesso campeggia una famosa frase di Dante: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Ai lati, due copie dei Prigioni di Michelangelo e una lunga citazione di sant'Agostino sul valore rieducativo della pena. E finalmente, quello che dovrebbe trovarsi in ciascun penitenziario italiano mentre è una rarità strappata con i denti da dirigenti lungimiranti e dal consorzio sociale Giotto: la zona lavoro.

Al 31 dicembre 2016 (il Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, fornisce questi dati ogni sei mesi) sono appena 924 su 54.653 i detenuti che fanno un lavoro «vero» dietro le sbarre, con una professionalità specifica, assunti e pagati regolarmente da un'impresa o una cooperativa; 150 di essi sono reclusi al Due Palazzi. Altri 847 lavorano in regime di semilibertà e 1.000 all'esterno in base all'articolo 21 della legge 354/75. Poi ci sono 13.480 carcerati alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, la stragrande maggioranza (81 per cento) nei cosiddetti lavori domestici: per massimo un'ora al giorno fanno pulizie, il porta-vitto, lo spesino, oppure manutenzione agli edifici. Chiamarlo lavoro è esagerato; è un sussidio, spesso diseducativo; nessuno insegna e nessuno impara. La quota reale di disoccupazione in carcere è del 95 per cento. Il consorzio padovano offre varie opportunità di impiego dentro il Due Palazzi: il più famoso è il laboratorio di pasticceria che sforna i «Dolci di Giotto», panettoni e colombe artigianali pluripremiati da chef e gourmet, oltre a uova di Pasqua, praline, gelati e catering completi per eventi anche da mille persone. Ma c'è posto anche nel call center per il centro prenotazioni dell'Azienda sanitaria di Padova, attività di telemarketing e test di lampade a led per Illumia, montaggio della ferramenta (ruote, maniglie, serrature) sulle valigie Roncato, scannerizzazione di documenti per Infocert, stampa rotografica di scatole e contenitori, assemblaggio di chiavette per la firma digitale (20mila al mese) per aziende, camere di commercio, associazioni.

DAL GIARDINO AL BIGNÈ

«Non siamo partiti con l'obiettivo di dare lavoro ai detenuti», racconta Nicola Boscoletto, presidente della galassia Giotto. A cavallo tra Anni 80 e 90 egli era un laureato in agraria che con alcuni amici aveva messo in piedi una cooperativa per la manutenzione del verde. «Il Due Palazzi era rimasto chiuso cinque anni dopo lo scandalo delle carceri d'oro, quello che coinvolse il ministro Franco Nicolazzi. Anni di abbandono totale. Noi vincemmo l'appalto per ripristinare l'area verde esterna. Proponemmo al direttore di affidare ai reclusi la manutenzione ordinaria del verde, noi avremmo potuto tenere un corso di giardinaggio per addestrare 20 detenuti. Oggi siamo all'edizione numero 26. Il lavoro dà dignità ai reclusi che rialzano la testa dalla loro condizione; si riscoprono padri, mariti, figli, e non più bollati soltanto in base al fine pena».

Nel 2001 arrivò la legge Smuraglia che incentivava le coop che riportavano il lavoro nelle carceri dopo vent'anni in cui erano state abbandonate alle risse e all'autolesionismo. Quelli della Giotto introdussero al Due Palazzi alcune lavorazioni e soprattutto impiantarono il laboratorio di pasticceria diventato un simbolo di eccellenza nel reinserimento dei detenuti. «Attenzione precisa Boscoletto noi ci siamo fatti conoscere prima per la qualità dei prodotti e poi per la loro produzione. La gente non compra la nostra colomba innanzitutto per assistenzialismo verso certi condannati, ma perché è tra le migliori d'Italia. La professionalità esalta il valore sociale».

I reclusi vengono reclutati come in qualsiasi posto di lavoro: fanno colloqui, un tirocinio, la formazione e al termine scatta l'assunzione. Vengono pagati secondo contratto e i soldi vengono versati su un conto corrente di cui l'amministrazione penitenziaria è tutore. Lo Stato trattiene 108 euro al mese per le spese di mantenimento; se per caso il detenuto ha debiti in sospeso, Equitalia gli preleva in automatico il quinto dello stipendio. Il resto di solito viene mandato ai familiari e in minor parte speso in carcere per piccoli acquisti, soprattutto sigarette e qualche caffè ai distributori automatici collocati nel braccio lavorativo. «Lo Stato passa un rotolo di carta igienica alla settimana dice Nicola Boscoletto -, un detenuto senza spiccioli è peggio di un mendicante per la strada».

Qualcuno penserà: perché lo Stato dovrebbe dare da lavorare a un delinquente? C'è tanta disoccupazione tra la gente normale. Eppure la Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e la legge sull'ordinamento penitenziario dice che «all'internato è assicurato il lavoro», pilastro del reinserimento con l'istruzione e la pratica religiosa. Basterebbe questo.

LA SCOPERTA DELLA FATICA

Ma ci sono anche altri motivi. Giovanni è cresciuto a Bari vecchia, è nipote di un boss, ha 36 anni, a 11 fu tolto alla famiglia per spaccio di droga. Deve scontare una pena di 28 anni e 8 mesi, e prima di finire a Padova è stato in una dozzina di penitenziari di alta sicurezza. Ha moglie e un figlio. «È la prima volta che lavoro in vita mia - sorride con la faccia infarinata mentre impasta le colombe pasquali -. Nel 2003, quando sono finito dentro, non sapevo nemmeno leggere e scrivere. Adesso andare a dormire con il pensiero che il giorno dopo ho qualcosa da fare è troppo bello». A che cosa serve lavorare? «A dare dignità e un senso alla detenzione. Posso aiutare economicamente la mia famiglia, far studiare mio figlio e far venire una volta in più mia moglie a trovarmi. Ho imparato un mestiere che mi aiuterà quando uscirò. Ora ho due visioni della vita, ho scoperto che non c'è soltanto il male».

Qualcun altro penserà: è soltanto buonismo, ci vuol altro. Sbagliato. Le statistiche sulla recidiva parlano chiaro, anche se non sono aggiornatissime, e questo la dice lunga sull'interesse che hanno le istituzioni penitenziarie all'argomento. Nel 2010 la recidiva media era tra il 70 e il 90 per cento a seconda del reato, ma tra chi ha lavorato in carcere precipitava al 15-20 per cento. Secondo un'analisi del 2012 svolta su un campione di 500 condannati che avevano svolto un percorso completo di lavoro sia in detenzione sia in misure alternative esterne, la recidiva era addirittura all'1-2 per cento. Le associazioni Antigone e Ristretti orizzonti, che conoscono a fondo il mondo dietro le sbarre, garantiscono che la situazione non è cambiata. «Chi ha fatto il male e riceve una proposta di bene sceglie il giusto - dice Boscoletto -. Ma bisogna dargli un impiego vero, non finto, e neppure fare un discorso sul lavoro».

I tagli alle amministrazioni statali hanno colpito anche questa nicchia di intervento, che pure farebbe risparmiare parecchi soldi alle casse pubbliche: meno recidive, meno reclusi, meno spese. Il Dap stima in 130 euro il costo quotidiano per ciascun detenuto ma quello reale supera i 200. Eppure, calcola Boscoletto, «tre anni fa gli stanziamenti della legge Smuraglia sono stati ridotti del 35 per cento, due anni fa di un altro 37 e l'anno scorso di un ulteriore 48,9 per cento. Se il ministero non interviene si rischia di perdere 1.200 posti di lavoro per i detenuti più altri 200 e oltre per gli operatori di supporto: educatori, psicologi, formatori.

Attendiamo una risposta dal ministro Andrea Orlando e dal capo del Dap, che hanno detto di voler rispondere adeguatamente a questa esigenza».

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